Partito dei sindaci, l’eterna suggestione

Quando si paralizza il modello centrale tornano le città. Oggi come nel 1993

di Salvatore Merlo 2.1.2020 ilfoglio.it –lettura3’

Roma. L’uno diceva di non voler appartenere “alla sinistra che si accontenta di testimoniare”, mentre l’altro faceva sfoggio d’ottimismo, perché “dall’Emilia-Romagna partirà la riscossa del centrosinistra anche a livello nazionale”, ed entrambi lasciavano così intravvedere squarci di futuro ma anche l’eterno ritorno di una voglia e d’una tentazione che da venticinque anni avvolge a intermittenza l’Italia politica. E infatti tre giorni fa, da un palco di Imola, il sindaco di Milano, Beppe Sala, e il presidente dell’Emilia, Stefano Bonaccini, questi due amministratori ben voluti e di sinistra, hanno comunicato ciò che sempre più tutti capiscono. E cioè che il destino della legislatura dipende dalle elezioni locali – da quelle emiliane del 26 gennaio e dalla tornata successiva – e che dalla dimensione locale, verrebbe da dire municipale, si affaccia un’ipotesi di rinnovamento del centrosinistra come dice spesso il sindaco di Firenze, Dario Nardella. E d’altra parte ogni qual volta in Italia si paralizza il sistema centrale ecco che tornano le città e le regioni, modello di buon governo e di concretissime vaghezze, l’Italia di quei sindaci che eletti con il maggioritario sembrano gli unici a coltivare, per prossimità, connessioni sentimentali e interessi tangibili. Matteo Renzi fu il sindaco presidente del Consiglio, come lo sarebbe voluto essere Walter Veltroni prima di lui, e nel 1993 la crisi della Prima Repubblica oltre a Berlusconi trovò il suo sbocco naturale nella primavera dei sindaci, Bassolino a Napoli e Rutelli a Roma, Cacciari a Venezia e Bianco a Catania.

Nel paese dei leader afasici, come Zingaretti, o eccessivamente facondi, come Salvini, nell’Italia della Nutella e delle “interlocuzioni” di Giuseppe Conte, ecco che sia la destra sia la sinistra hanno invece prodotto una classe di amministratori locali molto amati che s’identificano con le loro città e le loro regioni, talvolta sobri, talvolta un po’ meno, ma comunque sempre portati a dare soluzioni, per via del loro compito eminentemente amministrativo. Così Beppe Sala è diventato ormai Milano come Luca Zaia è da tempo il Veneto. E il destrorso Marco Bucci incarna la ritrosia di Genova proprio come il sinistrorso Luigi De Magistris è insieme il pasticcio e la creatività disperata di Napoli. La specifica attività di un governo locale li rende tutti più vicini e concreti, al punto che – quando non funzionano – i sindaci ci mettono pochissimo a essere identificati con la più balorda e surreale inconcludenza, come per esempio capita a Virginia Raggi a Roma, ma pure li preserva dalle magagne di una politica nazionale che è insieme pirotecnica e smarrita, molle eppure sbraitante, inafferrabile. E d’altra parte sindaci e presidenti di regione, tra preferenze e scrutinio maggioritario, investiti come sono da un potere e da una responsabilità di cui sono i diretti depositari di fronte ai cittadini che li giudicano, sono non a caso gli unici che in Italia governano e governano a lungo, al punto che spesso, come nel caso di Enzo De Luca in Campania, nemmeno la strapotente magistratura, capace di far dimettere ministri e far cadere governi, riesce ad abbatterli. Tutti circondati, come sono, da liste civiche e personali – come Bonaccini adesso in Emilia – insomma da liste fatte in casa, senza l’assistenza delle sezioni, senza la scienza delle segreterie e del cerimoniale d’investitura, liste che talvolta diventano anche maggioranza autonoma com’è accaduto a Federico Pizzarotti a Parma.

Personalizzazione, dunque, e talvolta ideologia della società civile o “gentismo”, va bene, ma anche quella specialissima forza che il sindaco di Bari, Antonio De Caro, del Pd, spiegò così quando venne eletto per la prima volta presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani: “Sarò presidente del partito più amato, quello dei sindaci”. Ed ecco allora la parola, “partito”, appunto, ecco l’idea ricorrente che di nuovo fermenta in una parte della sinistra, l’escogitazione che a giungo aveva portato Sala a dire che “serve un altro soggetto politico”, la suggestione che ad agosto aveva raccolto le firme di diciotto sindaci (“chiediamo di contare di più”) e che poi il sindaco di Firenze, Nardella, aveva così riassunto: “Vorrei favorire un movimento di liste civiche che si uniscano attorno alla coalizione di centrosinistra”. Ma prima bisogna vincere in Emilia-Romagna, come ha detto Bonaccini, che ha fatto completamente suo il profilo indipendente, municipalista, tanto da aver allontanato il simbolo del Pd dalla campagna elettorale. Ieri Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo, criticava Goffredo Bettini, gli elogi a Conte, l’idea che l’alleanza tra Pd e 5 stelle sia il nuovo bipolarismo. E si capisce che la natura, la forma, il destino e in definitiva le ipotesi di rilancio del centrosinistra passano ancora una volta dalle città e dai loro amministratori, come nel 1993. Alcuni di quei sindaci andarono poi a fare i ministri, furono vicepremier e candidati alla presidenza del Consiglio. Il partito dei sindaci non gli riuscì, però. Anzi, arrivati a Roma non ebbero più la stessa forza che avevano prima. A riprova forse che sono le regole, più delle persone, a rendere il governo centrale una palude.

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