Le motivazioni dell’assoluzione di Riva riscrivono la storia dell’Ilva

Sequestri preventivi, espropri e accuse infondate. Quello del siderurgico è un fallimento politico-giudiziario, non di mercato

di Annarita Digiorgio 9.1. 2020 ilfoglio –lettura5’

Taranto. Le 127 pagine di motivazioni della sentenza di assoluzione di Fabio Riva per l’ipotesi di bancarotta certamente piomberanno in tutte le future vicende giudiziarie e non legate all’Ilva di Taranto. Il Tribunale di Milano, ovviamente, dichiara che non è suo compito valutare se siano stati o meno commessi reati ambientali, accertamento che è demandato ai giudici di Taranto, ma se sia stata compiuta da parte degli amministratori dell’Ilva “quella sistematica omissione delle tutele ambientali e sanitarie” che però è il necessario presupposto del castello accusatorio dell’inchiesta “Ambiente svenduto”, formulato nel 2012 da cui derivano tutte le intricate vicende giudiziarie, economiche, industriali e politiche che ci hanno condotto alla soglia del 2020 alla sostanziale distruzione, per mano pubblica, di quella che sulla carta è ancora la più grande acciaieria d’Europa.

Inizia a farsi strada l’idea, per la verità sempre sostenuta dai pochi che credono nell’innocenza fino a sentenza (contraria) definitiva, che l’Ilva sia stata immotivatamente sottratta ai legittimi proprietari che, dal 1995 al 2012, come scritto nella sentenza, avevano effettuato notevoli investimenti ambientali e di ammodernamento smontando l’accusa di depauperamento generale della struttura.

In particolare ciò che emerge documentalmente nella sentenza milanese è che Riva non ha affatto omesso di sostenere i costi per l’adeguamento tecnologico ambientale dello stabilimento di Taranto, per il quale ha sostenuto complessivamente 4 miliardi e 650 milioni di euro per investimenti ambientali (1.200 mila euro) e tecnologici (3 milioni e 450 mila euro). Emerge anche che lo stabilimento di Taranto osservava, nel 2010/2011, i limiti emissivi previsti dalle leggi europee, nazionali e regionali; che la società aveva implementato alla fine del 2010 tutti gli interventi ambientali di adeguamento alle migliori tecniche disponibili al tempo vigenti; che la società aveva in gran parte anticipato, già nel 2011, le tecniche di seconda generazione che sarebbero entrate in vigore nel 2018.

Nonostante questo, nel 2012 l’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini emanò una nuova Autorizzazione integrata ambientale, quella sostanzialmente che ancora oggi rappresenta la madre delle leggi per l’Ilva e di cui, a distanza di 8 anni, solo Mittal ha iniziato a rispettare il cronoprogramma (nel frattempo si è compensato il non adeguamento degli impianti tenendo la produzione sotto i 6 milioni di tonnellate). Clini riuscì a convincere i Riva a rispettare quella nuova autorizzazione ambientale e a investire 3 miliardi per attuare il programma di risanamento, che doveva essere completato entro il 2015.

Il 26 novembre 2012 il Gip di Taranto sequestrò “come corpo del reato” i prodotti finiti, già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo che l’azienda aveva destinato proprio ai primi investimenti per l’attuazione del programma di risanamento. Il governo varò un decreto che il Gip impugnò mantenendo il blocco dei prodotti finiti. Il 9 aprile 2013 la Corte Costituzionale respinse le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla procura di Taranto, rilevando peraltro che le misure di risanamento ambientale dello stabilimento (Aia) corrispondevano all’obiettivo della salvaguardia contestuale del diritto al lavoro e del diritto alla salute.

Tutto questo è venuto fuori perché, a differenza di suo fratello Nicola e dello zio Adriano (nel frattempo deceduto), Fabio Riva ha preferito il rito abbreviato al patteggiamento. Se ora la procura non dovesse ricorrere in appello, sarà possibile la revisione del giudizio su Nicola Riva che per la stessa accusa patteggiò tre anni

Tuttavia il Gip attese per il dissequestro la lettura del dispositivo della Corte che arrivò a maggio 2013 e, poche settimane dopo, dispose un ulteriore sequestro preventivo “per equivalente” di 8,1 miliardi, con l’effetto pratico di congelare definitivamente le risorse che l’impresa avrebbe dovuto utilizzare per il risanamento. A quel punto il governo aprì il Commissariamento e successivamente, per mano dell’allora ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, procedette all’esproprio preventivo della fabbrica. Si pensò così di far fare al governo, a proprie spese (o meglio, a spese dei contribuenti), ciò che avrebbero dovuto fare Riva (esattamente come ora con Mittal) a loro spese. Cosa mai avvenuta, dal momento che l’Aia è stata via via posticipata, e i commissari non hanno neppure messo in sicurezza gli altoforni rischiando di mandare definitivamente tutto a mare. È lo stesso giudice di Milano Lidia Castellucci a scrivere che “il progetto di rilancio non si sia verificato per l’avvenuto commissariamento ambientale di Ilva”.

Tutto questo oggi è venuto fuori perché, a differenza di suo fratello Nicola e dello zio Adriano (nel frattempo deceduto), Fabio Riva ha preferito il rito abbreviato al patteggiamento. Se ora la procura non dovesse ricorrere in appello, sarà possibile la revisione del giudizio su Nicola Riva che per la stessa accusa aveva patteggiato tre anni. Esattamente come per il caso Ligresti. Solo un mese fa il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia in un’intervista dichiarava: “I Riva hanno patteggiato, ammettendo cosi che il reato e il danno ambientale esistevano.”

Le motivazioni all’assoluzione di Fabio Riva dimostrano non solo che non era vero per lui, e quindi certamente anche per suo fratello, ma soprattutto che sempre più spesso oggi nel processo italiano un patteggiamento non corrisponde automaticamente a una colpevolezza reale. Spesso è solo una strategia processuale per evitare la pena del processo. Se non vuole addentrarsi nella vicenda Ilva, di cui parla solo come ventriloquo di Michele Emiliano, al ministro Boccia basterebbe guardare le puntate di questi giorni della soap di RaiTre “Un Posto al Sole”, dove uno dei protagonisti da innocente preferisce il patteggiamento al processo (il paese reale queste cose le sa perché le vive ogni giorno sulla propria pelle, e diventeranno ancora più frequenti difronte alla prescrizione eterna).

Quanto ai Riva quando e se un giorno il processo Ilva arriverà alla fine, nessuno ci toglie dalla testa che ricorrendo alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per quell’esproprio preventivo in violazione della proprietà privata, lo stato rischierà di restituirgli l’Ilva con tutti gli interessi. Sempre se ne sarà rimasto qualcosa. Dal momento che, dopo averla ridotta a un colabrodo, l’unica grande proposta di rinnovamento tecnologico che nel 2020 il governo riesce a fare sono i forni elettrici. Riva, ancora oggi, e senza Ilva, è il leader italiano dei forni elettrici: il primo l’ha costruito nel 1954, controlla 21 stabilimenti, una produzione di 7 milioni di tonnellate di acciaio e tre miliardi di fatturato. Tutti i suoi guai sono nati per colpa dell’Ilva. Quando decise di aiutare lo stato a tenere in piedi l’unica azienda che garantiva la produzione a ciclo integrale della nazione. E che ancora oggi sarebbe l’unica in grado di farlo. Lo stato, evidentemente, no.

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