SALVINI A PROCESSO/ Un voto politico che “condiziona” tutti i prossimi governi

Il voto sull’autorizzazione a procedere per Salvini è carico di gravi conseguenze che non tarderanno ad arrivare. Ogni ministro non avrà più il coraggio di agire

13.02.2020 - Giulio M. Salerno, ilsussidiario.net –lettura 3’

Il voto sull’autorizzazione a procedere per Salvini è carico di gravi conseguenze che non tarderanno ad arrivare. Ogni ministro non avrà più il coraggio di agire

Si può contestare nel merito il voto del Senato sul caso Salvini, ma non si può negare che sia trattato di un voto “politico” su una questione prettamente “politica”. Una decisione in cui in Parlamento ci si conta, non per compiere un giudizio (anticipato) di colpevolezza, ma per verificare quale sia, tra le forze parlamentari, la valutazione prevalente circa le conseguenze politico-istituzionali che possono scaturire dal consentire o meno lo svolgimento di un processo nei confronti di un ministro o di un ex-ministro.

Per questo motivo, il procedimento è del tutto particolare, e ben diverso da quello applicato per le autorizzazioni richieste dall’art. 68 Cost., ad esempio, per privare un parlamentare della libertà personale. Quando la Costituzione venne cambiata, sull’onda dell’avanzante delegittimazione dei partiti, sopprimendo il giudizio della Corte costituzionale sui reati ministeriali, si era ben consapevoli della necessità di mantenere un filtro, minimo ma irriducibile, nei confronti del potere giudiziario. E così la legge cost. n. 1/1989 ha previsto che i parlamentari dispongano di un potere chiaramente oppositivo, contrario cioè all’azione dei giudici ordinari: la maggioranza assoluta dei componenti della Camera può precludere l’azione giudiziaria appellandosi, in modo praticamente apodittico, alla presenza non solo di interessi di rilievo costituzionale, ma anche di interessi pubblici “preminenti nell’esercizio della funzione di Governo” (scritto con la maiuscola!).

Il legislatore costituzionale del 1989, però, si muoveva in una logica in cui la dialettica “amico/nemico” avrebbe visto come protagonisti da un lato gli organi rappresentativi, democraticamente eletti e dunque tra loro sostanzialmente coesi, e dall’altro lato il “potere diffuso” (e per di più frazionato) rappresentato dalla magistratura. Ma, con il crollo di gran parte dei partiti della Prima Repubblica, si è salvato solo chi, di fronte alla nuova faglia tra giustizia e politica, si è collocato sul primo versante, quasi ripudiando sé stesso. E a questa faglia, soprattutto con l’avvento dell’Unione Europea, se ne è sovrapposta un’altra altrettanto radicale, quella tra europeismo e sovranismo.

Se poi i predetti fattori di contrapposizione si sommano, e ad essi si aggiungono lo sfarinamento delle forze in Parlamento e la sempre più diffusa giurisdizionalizzazione dei processi decisionali pubblici, il risultato può essere quasi scontato. Senza però doversi escludere che un tale esito potrebbe successivamente essere smentito dal voto popolare, con risultati forse imprevedibili, a partire dal condizionamento che ne deriverebbe sullo svolgimento di un procedimento giudiziario.

Allora, se risulta lapalissiano il mutamento della posizione assunta dal Movimento 5 Stelle, al di là delle differenze tra il caso in questione e quello della nave Diciotti, qualcosa non torna. Certo, se prima proteggere Salvini era consustanziale alla sopravvivenza del governo giallo-verde, adesso consentirne il processo è consequenziale al ribaltamento dell’alleanza di governo. Un’apparente coerenza, però, che rischia di produrre effetti devastanti per lo svolgimento delle funzioni di governo: nessuno, soprattutto dopo la cessazione dell’incarico di ministro, potrà ormai ritenersi immune qualora dovessero sommarsi un “pre-giudizio” giudiziario (tanto più se collegato ad accuse non adeguatamente fondate) e una maggioranza parlamentare derivante da un accordo diverso da quello che lo aveva posto al potere.

Non si tratta, è evidente, di tornare alla Costituzione pre-1989. Ben diversamente, il ceto politico tutto deve avere consapevolezza delle sue azioni e delle sue dichiarazioni. Appellarsi, tra l’altro, alla separazione tra la responsabilità collegiale di governo e le responsabilità individuali dei singoli ministri, rischia di produrre ancor maggior danno. Vuol dire, in pratica, assegnare ai titolari dell’accusa giudiziaria l’ulteriore libertà di selezionare chi colpire e chi no, ritagliando le responsabilità dei componenti dell’esecutivo sulla base delle competenze attribuite da norme che, come noto, sono sempre oggetto di interpretazione più o meno discrezionale. Accrescendo così l’incertezza nell’azione di governo e i reciproci sospetti. Quando la giustizia e la politica si confondono, non c’è più legalità, ma solo arbitrio.  

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