LE CORSE DEGLI ALTRI- La quarantena potrebbe essere più lunga e più dura del previsto, anche per colpa nostra

Runner che corrono attorno ai parchi chiusi, cittadini che ricorrono al tar contro le ordinanze, azzeccagarbugli pronti a tutto pur di fare come vogliono. E a pagare il conto è chi sta in corsia, o alla cassa del supermercato

19.3.2020 Francesco Cundari –linkiesta.it – lettura 4’

È possibile che la nostra quarantena duri più a lungo del previsto, e prima di sentirmi dire che gran parte di noi si trova in una condizione assai più confortevole di chi in quarantena ci sta davvero, il che è giustissimo, aggiungo: è anche assai probabile che peggiori. In molte parti d’Italia sta già accadendo. In mille città in giro per la penisola i sindaci sono stati costretti a chiudere i parchi. In Campania Vincenzo De Luca ha dovuto emettere un’ordinanza anche più restrittiva contro corse e passeggiate all’aperto. Dal presidente del Consiglio a praticamente ogni singolo ministro di questo governo, da ultimo il titolare dello Sport, Vincenzo Spadafora, chi più chi meno esplicitamente, ce lo hanno ripetuto tutti, in tutti i modi possibili: se le misure prese finora non si riveleranno sufficienti – se cioè i cittadini non capiranno che devono stare a casa il più possibile – bisognerà prenderne di più drastiche.

Il risultato è che a Milano, dove hanno chiuso i parchi, i runner hanno cominciato a correrci intorno; che in Campania un privato cittadino amante dello sport all’aria aperta ha pensato bene di ricorrere al Tar contro l’ordinanza di De Luca (l’istanza di sospensione è stata respinta ieri, per fortuna); che in tutta Italia milioni di azzeccagarbugli, per professione o per vocazione, si sono mobilitati a tutela del loro diritto a sfruttare ogni possibilità legale di continuare a fare come vogliono. Ognuno ovviamente più che convinto di difendere principi fondamentali e universali nell’interesse di tutti, ci mancherebbe.

Volete un esempio concreto? Quello che segue è un dialogo tratto dai commenti su Facebook al mio articolo dell’altro giorno contro il diritto alla corsetta, dialogo tra due lettori, il secondo dei quali molto critico con la tesi del pezzo. Primo lettore: «Non vorrei sembrare polemico, ma il punto è che nella tua foto profilo c’è scritto “rimani a casa” e poi continui a invocare la possibilità di uscire per correre perché lo dice la legge». Replica: «Perché tutte le condizioni vanno calate nel reale».

Ecco qua. Se c’è un problema messo in luce da questa situazione, è proprio la tendenza a scaricare sempre sul prossimo il peso di tutti i cambiamenti da noi stessi invocati: nessuno dice che cambiamenti non siano necessari, ma tutti pretendono che a farsene carico siano esclusivamente gli altri. Quelli che corrono contro quelli che portano a spasso il cane, quelli col cane contro quelli che vanno in bicicletta, quelli che vanno in bicicletta contro quelli che passeggiano con la scusa del cane, della spesa o del giornale (pochissimi, questi ultimi, per la verità: la crisi della stampa è talmente profonda che persino la quarantena è ritenuta preferibile all’idea di uscire a comprare un quotidiano). Un dibattito ancora più straniante perché si svolge all’interno della fascia dei privilegiati ai quali al massimo è chiesto di rinunciare alla passeggiatina, mica di rischiare la vita in corsia.

D’altra parte, tutte queste discussioni rappresentano una straordinaria prova per ciascuno di noi. Una prova di tolleranza, attenzione, capacità di discernimento (sì, sto parlando anzitutto a me stesso). Per fortuna molti di questi problemi – tolto l’aspetto medico-scientifico – sono stati già affrontati prima di noi. Per esempio da Dostoevskij. «Io amo l'umanità, però mi meraviglio di me stesso: tanto più amo l’umanità in generale, tanto meno amo i singoli uomini, presi separatamente, come persone distinte», diceva un dottore nei Fratelli Karamazov (o meglio, diceva un monaco citando un dottore, ma non complichiamo le cose inutilmente: il punto decisivo, e davvero stupefacente, è che non citava una discussione su facebook).

«Non di rado nelle mie fantasticherie ho formulato piani appassionati per servire l'umanità e forse mi sarei davvero fatto crocifiggere per gli uomini, se ce ne fosse stato improvvisamente bisogno, ma intanto non sono capace di vivere due giorni nella stessa stanza con qualcuno, e lo so per esperienza. Non appena qualcuno mi sta vicino, subito la sua personalità soffoca il mio amor proprio e limita la mia libertà. In sole ventiquattr’ore arrivo ad odiare le persone migliori del mondo: uno perché è troppo lento a pranzo, l’altro perché ha il raffreddore e si soffia il naso di continuo. Divento nemico degli uomini non appena qualcuno mi sfiora. In compenso avviene sempre che più odio gli uomini presi singolarmente, più ardente diventa il mio amore per l'umanità in generale».

Avete mai letto una migliore descrizione della nostra attuale condizione? A cominciare da noi che scriviamo di queste cose, si capisce, non importa dove (sui giornali, sui social network, sui muri). Non sono così bravo da sapervi spiegare con certezza il significato più profondo dell’apologo; in realtà, non saprei nemmeno spiegare perché io lo consideri un apologo. Credo però che noi disinteressati amanti dell’umanità in generale dovremmo pensare un po’ più spesso, in questi giorni, non solo a medici e infermieri impegnati a salvare quante più persone è possibile (persone intere, singole e irripetibili), ma anche a chi lavora nei supermercati in cui continuiamo a rifornirci. E dove troppi di noi continuano ad andare in coppia, anche più volte al giorno, come scusa per uscire, senza nemmeno chiedersi cosa questo comporti per chi sta alla cassa, per fare un solo esempio.

Un esempio concreto di una persona concreta (Ornella, per la precisione) che qualche giorno fa, come tanti suoi colleghi, denunciava questo drammatico problema: che non li teniamo in minima considerazione, loro, la loro sicurezza e le loro più che legittime preoccupazioni.

Non ci pensiamo proprio, tutti noi a cui non è chiesto altro sacrificio che quello di stare il più possibile in casa, molto più comodi e infinitamente più al sicuro non solo di tanti medici e infermieri, ma anche di tantissimi lavoratori impegnati nel trasporto merci, nella consegna dei nostri pacchi, dei nostri pranzi e delle nostre cene, dietro il banco della farmacia o del supermercato.

Se riusciremo ad attraversare vivi questa immane tragedia, lo dovremo anche a loro. La prossima volta, prima di offrire al mondo tutti i vostri grandiosi piani di riforma sociale per il benessere dell’umanità – dalla prima pagina di un quotidiano o da quella del vostro profilo Facebook – domandatevi quante volte siete andati a fare la spesa. E ricordatevi di Ornella.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata