Pasquettari di merda!

Quarantena o non quarantena, il lunedì dell’Angelo meglio stare a casa. Due ricordi, tra Pajetta e il Fogliuzzo

di Giuliano Ferrara 4.4. 2020 ilfoglio.it  lettura 3'

Pasquetta 1950 a Torino. La Coca Cola fa la sua apparizione in Italia, grazie anche alle ghiacciaie che la mantengono fresca

Sì, abbiamo capito. C’è un bel sole, le città sono invitanti, una scappatoia per le multe si troverà perché lo stato ci vede e non ci vede, la coppia scoppia, l’appartamento va bene ma con una qualche misura, il distanziamento sociale si può fare anche in piazza o sul marciapiede, e allora un popolo di urban explorer “si riversa”, come si dice, dopo tanto rannicchiamento sul divano. Comprensibile, anche se per principio e di fatto inescusabile. Tutti svedesi, tutti svizzeri, proprio di gregge magari no ma si moltiplicano quelli alla ricerca di un’immunità di branco, e se la cosa prende piede, addio. Si spera che la licenza duri poco e sia limitata e non faccia troppi danni. D’altra parte, si sa, in città è dura la reclusione.

Ma Pasquetta no. Pasquetta da secoli non la fanno i bobo, abituati al week end e ai conforti della seconda casa. E anche i non bobo, i benedetti common men, una certa disabitudine l’hanno coltivata. Nei secoli passati Pasquetta era la canottiera, prima di tutto. Proprio quella che altre epidemie, culturali e di stile, ci hanno fatto in larghissima misura dismettere. Era anche la gonna scozzese, e qualche calzettone per le ragazze. La gita fuori porta in tee shirt non ha senso. Pasquetta è anni Cinquanta e primi Sessanta, sa di boom e pic nic casereccio invece che di recessione e take away. Ne ricordo alcune, in giro tra i prati a cercare il posto adatto, con genitori e amici loro, tavolini, plastiche abbondanti, panze e panzette fra i ruderi campagnoli del Lazio. La rifarei subito, la gitarella, per chiacchierare di nuovo con i miei, ma con tutto il rispetto, erano due palle così. Solo i runner di Buccinasco hanno superato quel grado di autolesionismo psicologico. Pasquetta comunque è molto laziale, sebbene sia un’abitudine anche a altre latitudini, c’è di mezzo l’abbacchio che è così uguale e così diverso dall’agnello.

  

Ma la Pasquetta mezza vegana di ora, quella preventivabile nelle circostanze, no. Sarà affascinante perché fuorilegge, e in quanti non abbiamo aspettato di giocare ai Bonnie & Clyde del Corona, gli Al Capone di fuori porta? Comunque Pasquetta è la Cinquecento, la Seicento, al massimo la Millecento lusso: con queste Audi lunghe cinque metri, o queste Toyota ibride, queste Mercedes zingaresche o luccicanti, queste odiose Smart che non hanno nemmeno un decente sedile posteriore a norma, per non dire delle macchine elettriche, di nuovo no. Se avete una vecchia Duna, va bene, fate l’autocertificazione. Sennò, lasciatela, lei, la macchina, in garage a celebrare in quarantena il lunedì dell’Angelo. Inoltre, per fare Pasquetta ci vuole la commedia all’italiana, se non l’antenato neorealista addirittura. Non voglio sembrare uno snob né un carceriere, ma la vera Pasquetta è in bianco e nero, non è una puntata di una serie, e se è meglio del consumo culturale, anche quello spesso fuori porta, questo non autorizza a scagliarla contro le regole antivirus.

Per dire quanto sia vecchia, nobile, ma in tutto passata di moda, la Pasquetta, ho due ricordi.

Gian Carlo Pajetta era molto di più di un dirigente comunista, era un mito, con la galera sotto il fascismo, l’occupazione della prefettura di Milano subito dopo, l’oratoria travolgente, un attivismo leggendario, una cultura sottile forgiata negli anni Trenta. Pajetta voleva dire bollino, sottoscrizione, sezione, comizio, microfono, palchetto su un camion, diffusione dell’Unità, irrisione dell’avversario, fairplay e tavolette della Camera divelte e scagliate contro gli atlantisti, intelligenza dei problemi e sopra tutto, un portato della galera, la sconfinata voglia di ridere, di essere combattente come un Taras Bulba e ironico come un Woody Allen. Una volta che a Torino tutto langueva, per lui tutto sempre langueva se non c’erano casino e organizzazione, e incombeva la festività pasquale, ebbe il genio in rima di lanciare per la mobilitazione uno slogan rimasto negli annali e nei cuori: Pasquetta con Pajetta! Sarà da quel ricordo pieno di sprezzatura che ai tempi eroici o pionieristici del primo Foglio, un caso di volontarismo pazzo che un giorno verrà studiato, mi venne l’orticaria a leggere il foglio di servizio redazionale con i molti nomi dei legittimi vacanzieri del lunedì, e da orco proruppi in un’esclamazione bestiale che riscosse giusta derisione e molto divertimento poi per anni: Pasquettari di merda!

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