FASE 2, L’ORIGINE DEL CAOS/ Una politica succube degli “esperti” di turno

In tempi di coronavirus ci si affida a “esperti” e scienziati, ma le risposte vere spettano alla politica

03.05.2020 Carlo Bellieni ilsussidiario.net lettura 4’

In tempi di coronavirus ci si affida a “esperti” e scienziati, ma le risposte vere spettano alla politica

Viva gli esperti! È il refrain di questa lunga quarantena. La politica sembra attendere giorno per giorno la loro voce chiedendo certezze da seguire. Ma questo affidare il corpo sociale alla tecnica, sapendone i limiti che essa stessa dichiara, è cosa buona?

Per rispondere chiarisco innanzitutto che senza i tecnici non si va da nessuna parte, e che la tecnica sta facendo progressi meravigliosi e utilissimi. Ma ha un limite: la tecnica non è la politica, e la tecnica è cangiante perché si basa sulle evidenze e le evidenze cambiano. E cosa possono rispondere gli esperti se non ciò che è limitato al loro sapere, cioè una piccola fetta dello scibile? Il virologo saprà bene parlare di cosa è un virus e come si uccide; l’epidemiologo di come vanno e vengono le epidemie; l’intensivista dell’uso di ventilatori e di polmoniti. Ma siano chiare due cose: primo, che l’ultraspecializzazione porta ad una limitazione dello scibile e lo specialista conosce ultrabene il suo orticello ma meno il resto della medicina; secondo, che l’ultraspecializzazione porta spesso ad una scarsa comunicabilità, perché ogni specialista parla un gergo e ha dei riferimenti suoi specifici.

L’esperto raramente è educato a guardare oltre il proprio orto. Allora per il virologo l’epidemia sarà finita quando si sarà trovato il vaccino, per l’epidemiologo quando non ci saranno più virus in giro e per l’intensivista quando non ci saranno più malati in rianimazione. Sembra un quadro confuso.

In secondo luogo bisogna che la politica sappia fare ai tecnici le domande giuste; per esempio stupisce che l’unico quesito sia stato in questi tempi o “quando finirà” o “come difendersi”, mentre altre priorità (economiche, sociali, sanitarie) erano smosse da questo clima speciale. Chi si è posto seriamente il problema delle ricadute psicologiche della reclusione forzata, soprattutto sui più deboli? Nessuno è andato a fare questa scomoda domanda perché la tecnica interrogata era solo quella che faceva il novero dei morti e dei guariti. Anche questo è un quadro altrettanto incompleto.

Ma nell’era moderna la politica non appare in grado di risolvere questi problemi. Hannah Arendt nel 1958 scriveva il libro Vita Activa, in cui spiegava che per il filosofo antico l’attività umana si era distinta in tre livelli: il semplice lavoro manuale, poi il lavoro tecnico e il lavoro politico, entrambi funzione di un livello di attività più alto, l’attività contemplativa. Ma l’idea di contemplazione è scomparsa e il lavoro politico ha perso importanza a favore dell’attività tecnica, perché si è passati “dalle vecchie questioni del ‘che cosa’ e del ‘perché’ alla nuova questione del ‘come’” e ormai si ha “la convinzione che ogni problema può essere risolto e ogni motivazione umana ridotta al principio di utilità; si considera tutto ciò che è dato come materia prima e si vede la natura come un immenso tessuto da cui possiamo ritagliare ciò che vogliamo”.

E in questi giorni la politica, la morale e in un certo senso anche l’attività religiosa sembrano essere subordinate al dato dei tecnici, che però non può dare certezze granitiche sociali o normative; e non è più funzione di qualcosa di alto (la filosofia, l’etica, la “contemplazione” dei princìpi primi). Quindi si vive nell’attesa di una risposta definita e lungimirante da un luogo da cui non può venire perché darle è compito della politica.

Segno della gravità della situazione sono i mass-media: quasi tutti in preda alla ricerca dell’esperto da contrapporre all’altro esperto e tramutando tutti in tuttologi; mass-media troppo spesso senza visioni lungimiranti, tesi al rispondere alle domande del giorno.

Questo è il rischio di una tecnica disincarnata e disincantata, finalizzata all’utile e non, come avrebbe voluto Enzo Tiezzi chimico e politico, al bello. Il tecnico (biologo, architetto, medico, docente) non viene più educato a guardare alto, ma semplicemente a rispondere alla sua mansione/funzione. Quello che preoccupa non è l’afinalismo della tecnica, quanto il passo indietro che fa la coscienza umana, la cultura e la politica, trasformando l’etica e le virtù a seguito pedissequo di protocolli tecnici afinalistici.

Non che siano sbagliati i protocolli, solo che non mostrano, come dovrebbero, un progetto più ampio e futuribile. D’altronde, Gunther Anders spiegava che l’uomo occidentale vive di un’invidia verso la tecnologia di cui vorrebbe essere un meccanismo tra gli altri, per perdere imprevedibilità e fantasia a vantaggio di un grigio benessere e routine. E Umberto Galimberti afferma che “continuiamo a pensare di avere la tecnica come strumento a nostra disposizione. Non è vero, non è assolutamente vero. La tecnica è ormai diventata il soggetto del mondo e gli uomini si sono trasformati in apparati di questa tecnica. Se la tecnica diventa il canone universale per realizzare qualsiasi scopo, non è più uno strumento bensì il primo e pervasivo scopo di esistenza”.

Cercare una politica che tenti di dire “cosa è” la realtà, di seguire idealità, e non solo amministri i mezzi (di sopravvivenza) che la tecnica impone, significa volere qualcosa di stabile: tecnici bravi ma che anche vedano oltre la loro funzione specifica; una medicina sociale e non una medicina-azienda che segue il principio di domanda-offerta; un’agenda sociale che insegua il lungo termine dal punto di vista urbanistico ed ecologico. La sfida è pressante ora per la politica e la sua sopravvivenza. Come scriveva ancora Enzo Tiezzi, “occorre recuperare il rapporto tra bellezza e scienza, nel riannodare quelle trame perdute tra mente e natura”; dato che portare la bellezza e l’armonia nella società è compito di morale e politica, il percorso da fare è chiaro.

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