DECRETO RILANCIO/ L’assedio delle imprese respinge la manovra elettorale del Governo

Per la seconda volta slitta il Cdm che dovrebbe varare il “decreto rilancio”: un collage di tanti provvedimenti insufficienti a scopo per lo più clientelare

12.05.2020 - Anselmo Del Duca ilsussidiario.net lettura3

Per la seconda volta slitta il Cdm che dovrebbe varare il “decreto rilancio”: un collage di tanti provvedimenti insufficienti a scopo per lo più clientelare

Il tempo passa, inesorabile. Le lancette degli orologi della crisi scandiscono il passare dei minuti, delle ore e dei giorni. Alle imprese i soldi non arrivano, e l’orizzonte dell’economia si fa sempre più nero. Il governo boccheggia: il decreto “aprile” a forza di rinvii è diventato “maggio”, poi è stato ribattezzato “rilancio”, non sapendo per il maggio di quale anno sarà pronto.

Il testo si è gonfiato a dismisura, bozze su bozze che circolano fra gli addetti ai lavori, una – quella che abbiamo visionato – consta di 254 articoli e la bellezza di 449 pagine. Una gigantesca tela di Penelope che si tesse e si disfa in continuazione, in un’estenuante trattativa fra i partiti delle coalizione, le associazioni di categoria, i sindacati. Il premier Conte aveva promesso il varo del provvedimento per il fine settimana scorso, ma non ci è riuscito. In un continuo ritoccare il testo per accontentare un po’ tutti, l’esecutivo è parso completamente smarrito. In grande difficoltà. Soprattutto è parso ai più senza una visione complessiva della fase di ripresa, in cui l’Italia si gioca tanto del proprio futuro. A furia di fare “copia e incolla” dei suggerimenti delle varie categorie il rischio sempre più concreto è quello di sfornare un risottone clientelare che, alla fine, non servirà a nulla e non accontenterà nessuno.

Al traguardo del varo di questo attesissimo provvedimento legislativo ci si è avvicinati in serata, con un preconsiglio dei ministri che stava slittando di ora in ora, preludio alla fatidica fumata bianca nella riunione formale. È il segnale che finalmente uno straccio di equilibrio è stato trovato, cui non è estranea l’intesa raggiunta nella cabina di regia con le Regioni: una sorta di resa senza condizioni alla pressante richiesta di riaprire, con il via libera dal 18 maggio a bar, ristoranti, parrucchieri e negozi, anche se con qualche differenza in base all’andamento dei contagi.

Resta da verificare se la faticosa intesa dentro la maggioranza di governo reggerà per un periodo ragionevole. La fase della discussione è stata un’autentica rissa, che autorizza il massimo del pessimismo. Pd e 5 Stelle si sono azzuffati sino all’ultimo sulla regolarizzazione dei lavoratori migranti, trovando un accordo su permessi di sei mesi che interessano soprattutto badanti e settore agricolo. Ma grillini e renziani erano pure perplessi in merito al bonus vacanze, ritenuto troppo dispersivo e non aderente al grido di dolore venuto dal settore turistico. Un po’ tutti i partiti di governo si sono poi trovati in grande imbarazzo rispetto alle pressioni asfissianti venute dalla Confindustria, nuovo conio a trazione del falco lombardo Bonomi. Dagli imprenditori è venuto un forcing per ottenere concessioni sulla tassa più odiata, l’Irap, mentre anche dal terziario si alzava un grido di dolore, con la Confcommercio che lanciava l’allarme su 270mila possibili chiusure.

Comunque lo si giri, il decreto rilancio appare un vestito di arlecchino. E per di più cucito senza alcun filo proveniente dall’opposizione, che certo non avrà un atteggiamento favorevole. La navigazione parlamentare non potrà che avvenire, di conseguenza, che a colpi di fiducia, onde evitare il più classico degli “assalti alla diligenza”. Si tratta, in fondo, di un intervento da 55 miliardi di euro, molto superiore all’ultima legge di bilancio.

Ma ancora più che le inevitabili trappole della politica, soprattutto dentro la coalizione che sorregge Conte, sarà il fattore tempo a fare la differenza. Sinora pochissimi aiuti sono arrivati alle aziende, a differenza di quanto avvenuto quasi ovunque all’estero. Se non si recupererà questo drammatico ritardo, sarà il tracollo dell’economia a mettere in discussione la prosecuzione dell’esperienza di governo. Un po’ come avvenne con Berlusconi nel 2011. Ancora una volta dall’Europa potrebbe arrivare il punto decisivo. C’è la richiesta del prestito del Mes su cui decidere, ma non solo: entro giugno i capi di Stato e di governo dovranno decidere come avviare quel Recovery Fund che Italia e Francia hanno ottenuto. Sono munizioni indispensabili per reggere possibili tempeste autunnali sui mercati finanziari. Se qualche tessera di questo mosaico dovesse saltare, lo spazio per un governo diverso (un’unità nazionale intorno a un personaggio come Draghi) tornerebbe prepotentemente d’attualità.

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