Il contributo decisivo del sindacato e dell'opposizione nel disastro sul lavoro

La battaglia mancata per la produttività e per un mercato più flessibile. Le risposte evasive di Landini e i dati sconvolgenti di uno studio sulla necessità di creare lavoro anziché redistribuire ipotetiche risorse

di Claudio Cerasa, 6.7.2020 ilfoglio.it lettura 6’

Si fa presto a dire lavoro. Ho passato diversi piacevoli minuti in compagnia di Maurizio Landini, venerdì scorso a “In Onda” con Luca Telese e David Parenzo, e nel corso della chiacchierata con il segretario della Cgil sono emersi molti spunti utili per capire qual è oggi il vero tabù culturale nascosto dietro alle problematiche sul lavoro. In questa specifica fase della nostra storia, le problematiche legate al lavoro sono problematiche che appartengono a tutto il mondo e non bisogna essere degli scienziati dell'economia per capire che quando la crescita va giù inevitabilmente anche i posti di lavoro vanno giù. Vale per l'Italia, che secondo le previsioni più rosee registrerà a fine anno un calo del pil pari al 10 per cento, e vale per tutti gli altri paesi gravemente colpiti dal coronavirus, e dato che siamo ottimisti non osiamo pensare a cosa potrebbe accadere qualora la virologia da bar sport che sostiene sia tutto finito e che sta spingendo molti cittadini a credere che il virus sia finito, dovesse avere torto. Il punto, dunque, non è riconoscere la necessità di assistenzialistiche misure tampone, cosa che anche i più temibili tra i liberisti oggi riconoscono che sia necessaria, ma il punto è rendersi conto che intervenire sulla rivoluzione in corso nel mondo del lavoro usando solo la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti è come voler affrontare una pandemia distribuendo aspirine.

E dopo un'ora di amabile conversazione con il segretario della Cgil l'impressione è che il sindacato dei lavoratori sia rimasto con un piede ben ancorato nella stagione della pre pandemia. E lo si capisce bene quando Landini sceglie di non rispondere ad alcune domande che in teoria oggi dovrebbero essere centrali. Domanda numero uno: è possibile non rendersi conto che la proroga indiscriminata del blocco dei licenziamenti insieme con la proroga indiscriminata della Cig rischia di trasformarsi da temporaneo sostegno alle imprese in temporanea ingessatura dell'economia? Domanda numero due: è possibile non rendersi conto che per poter guardare al futuro senza troppo pessimismo occorrerebbe combattere affinché il governo italiano creasse le condizioni per sostenere i lavoratori nella fase di ricerca di un nuovo lavoro in un'impresa più solida piuttosto che spingerli a restare in un'impresa in difficoltà? Domanda numero tre: è possibile non capire che spendersi solo per difendere il blocco dei licenziamenti e la proroga della Cig significa non capire che, come scritto sabato scorso da Luciano Capone, quando queste politiche cesseranno la disoccupazione aumenterà ugualmente e nel frattempo si saranno sprecate grandi risorse che avrebbero potuto essere usate per promuovere i settori del futuro e per aiutare i lavoratori a ricollocarsi in imprese più solide? Domanda numero quattro: è possibile non capire che un paese che vuole tornare a creare posti di lavoro deve mettere a fuoco con intelligenza uno dei grandi freni della crescita italiana che coincide con la sua irrisoria produttività del lavoro?

Nel corso della trasmissione, a Maurizio Landini è stato chiesto tutto questo. E in particolare è stato chiesto perché il sindacato non si batte per rendere il lavoro italiano più produttivo (Landini sostiene che in Italia si lavora già molto, e ha ragione, ma sorvola sul fatto che in Italia il problema non è quanto si lavora ma come si lavora) e perché il sindacato non capisce che avere un mercato del lavoro elastico non è un modo per alimentare il precariato ma è un modo per avere un paese capace di adattarsi ai vari cicli dell'economia (l'America, che come è noto ha un mercato del lavoro più flessibile del nostro, dopo essersi ritrovata con 22 milioni di posti in meno, ha creato 4,8 milioni di posti a maggio, nonostante la crisi da coronavirus, dopo aver registrato già un sorprendente rialzo pari a 2,5 milioni di unità in aprile).

Fino a che il sindacato continuerà a dare su questi temi risposte evasive (a proposito: ma una parola della Cgil sull'Anpal e le sue inesistenti politiche attive e il suo inesistente piano industriale che l'Italia aspetta di conoscere da sei mesi?) il sindacato darà purtroppo un contribuito decisivo a tenere ingessato il nostro paese.

Ma il sindacato non è naturalmente l'unico soggetto che dovrebbe incalzare il governo su questo fronte. L'altro fronte dovrebbe essere quello dell'opposizione, che sui temi del lavoro però negli ultimi mesi è riuscita a dare il peggio di sé. E la ragione per cui né Matteo Salvini né Giorgia Meloni hanno la forza di illuminare i veri guai combinati dal governo sul terreno del lavoro è legata al fatto che il sovranismo sul tema del lavoro porta avanti un'agenda politica che si trova più dalla parte dei problemi che dalla parte delle soluzioni e che non presenta alcuna discontinuità con quello che è uno dei veri drammi economici del nostro paese: la tendenza a occuparsi molto della redistribuzione della ricchezza e poco della creazione della ricchezza.

Alberto Brambilla, consulente della presidenza del Consiglio sia con il Conte 1 sia con il Conte 2, molto stimato un tempo anche da Matteo Salvini, ha scritto da poco un saggio (“Le scomode verità”) dedicato anche ai temi del lavoro per spiegare ai populisti italiani quello che è il vero cortocircuito che impedisce al nostro paese di ragionare con sagacia quando si affrontano i temi del welfare. Brambilla ricorda che l'Italia avrebbe il dovere di occuparsi di come creare lavoro e non pensare solo a come redistribuire ipotetiche risorse e per argomentare bene la sua tesi offre dei dati che più che sorprendenti sono sconvolgenti. Scrive Brambilla: “Gli incrementi nei trasferimenti dallo stato agli enti previdenziali registrati nel periodo tra il 2008 e il 2018 hanno comportato una spesa cumulata di ben 222 miliardi in soli 11 anni. E a fronte di questa enorme spesa, pari a oltre 33 miliardi strutturali in più ogni anno (rispetto ai 73 miliardi del 2008), i cittadini potrebbero dire che sì sono soldi spesi in assistenza ma che sicuramente hanno migliorato la vita dei cittadini e hanno diminuito la povertà”.

E invece no. “Purtroppo - continua Brambilla - non è così e questo è il vero grande paradosso italiano: nel 2008 la spesa a carico della fiscalità generale era di 73 miliardi mentre l'Istat, nella sua indagine annuale sulla povertà, ci diceva che le famiglie in povertà assoluta erano pari al 4 per cento del totale e un altro 9,9 per cento viveva in povertà relativa. Nel 2018 abbiamo speso 105,66 miliardi a carico della fiscalità generale, cioè ben 33 miliardi strutturali in più. Una spesa enorme che vale il 67,96 per cento del costo delle pensioni al netto dell'Irpef e incide sul pil per il 4,56 per cento. E la povertà? Si è ridotta? No! Secondo l'Istat, le famiglie in povertà assoluta nel 2018 sono il 7 per cento (3 punti in più di 11 anni fa!) e quelle in povertà relativa l'11,8 per cento”. In altre parole, aver investito molto sulla spesa previdenziale, che è quello che chiedono di fare ancora di più le forze dell'opposizione, non solo non ha contribuito a creare il famoso turnover (ricordate i tempi in cui Salvini sosteneva che per ogni pensionato con quota 100 ci sarebbero stati due giovani assunti?) ma non ha contribuito neppure a invertire il trend della povertà. E mai come oggi avere un'opposizione incapace di incalzare il governo su un tema centrale come il lavoro non è solo un problema per l'opposizione ma è un problema per l'Italia. Meno spallate, più idee. E l'Italia forse ce la farà.

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