Comincia il Recovery party. Sfide e slide dai ministri

Sui 209 miliardi europei c’è una gara tra dicasteri. Patuanelli ne prenota 120, Speranza vuole ballare da solo col Mes

di Simone Canettieri, 7.9.2020 ilfoglio.it lettura 4’

Roma. Non dovrà essere uno “svuota cassetti”. E cioè una riesumazione – magari sotto la voce “green” – di progetti impolverati nei ministeri dagli anni ‘80. E poi, auspicano sempre a Palazzo Chigi, “niente assalto alla diligenza” in stile Finanziaria, signori ministri. Va bene che i 209 miliardi di euro del Recovery fund serviranno a irrorare destini personali e campagne elettorali future così come gruppi d’interesse e istanze territoriali, ma la raccomandazione sull’asse Conte-Amendola (il ministro che ha il compito di fare da collante) è rigida: va seguita una matrice comune, i progetti per accedere ai fondi post Covid dovranno essere armoniosi. “Un coro polifonico”. Senza acuti e soprattutto stecche. Altrimenti? La Commissione potrebbe storcere il naso, mandare indietro i dossier, chiedere chiarimenti. Domani il premier riunirà il Ciae, che sta per Comitato interministeriale per gli affari europei. Dalla riunione usciranno fuori le linee guida sul Recovery fund da sottoporre al Parlamento. Il pacchetto sarà pressoché blindato, ma non si potrà dire. Una volta tornate indietro – le linee guida – dal 15 ottobre inizierà l’interlocuzione formale con la Commissione. Dopodiché tutti i piani nazionali andranno presentati tra gennaio e aprile 2021. Tutto semplice? Non proprio.

  

Il primo busillis riguarda come comportarsi con la sanità. E cioè con il Mes.

Roberto Speranza nei giorni scorsi ha elaborato e ha presentato a Enzo Amendola 20 progetti per un totale di 68 miliardi di euro. In fin dei conti ci sarebbe stata (e c’è) una pandemia. Sicché si passa dalla riforma del territorio alla digitalizzazione del sistema sanitario, fino alla medicina scolastica, borse di specializzazione per ciascun laureato. E poi edilizia sostenibile, sicura e tecnologica. Ma la domanda che Speranza, sempre più di frequente e con una certa irrequietezza, si fa è la seguente: dove mettere questo piano? Nel Recovery o nel Mes? E se poi i grillini dovessero dire di no o meglio cincischiare? Insomma, il rischio di perdere un treno sicuro per un altro che non si sa a che ora passerà c’è. Ma la cornice e la coperta economica quelle sono.

    

Sul sì al Mes, il Pd – e lo hanno ribadito il segretario Nicola Zingaretti, il commissario Paolo Gentiloni e il ministro Roberto Gualtieri – non ha dubbi. I democratici sono sicuri che nel corso pedagogico nei confronti del M5s alla fine si arriverà anche a questo. “Li abbiamo presi euroscettici, ora invece…”, dice spesso Zingaretti a proposito degli alleati.

  

Nel frattempo, tutti i dicasteri coinvolti – e sono tanti e sono tutti – lavorano sulle linee guida e su questa benedetta armonizzazione. Sapendo che alla fine qualcosa dovrà essere mondato. Molto più di qualcosa. Il Mise, guidato dal grillino Stefano Patuanelli, rimane un azionista di maggioranza di questa operazione. Basti pensare che ha già fatto arrivare alla cabina di regia un file, seppur ancora da limare, la cui somma sfiora i 120 miliardi: più della metà della torta. Con dentro di tutto di più: 25 miliardi per Transizione 4.0 con sgravi fiscali e ammortamenti sostanziosi per le imprese green (eccolo!), un maxi piano per start up, accesso al credito e filiere di sostegno da 20 miliardi, altri 5 per la banda larga, per non parlare della decarbonizzazione e la siderurgia sostenibile (leggasi ex Ilva) da 12 miliardi.

  

Il ministero di via Veneto, che fu di Luigi Di Maio con 100 e passa vertenze territoriali lasciate lettera morta, ha buttato nel calderone anche i supporti per la transizione verde (super bonus) e i distretti territoriali (dalla Sardegna alla ceramica). La lista è lunga e dettagliata. E sicuramente “determinante” per la ripresa del paese. Gli stessi argomenti che a Porta Pia, dove ha sede il ministero dei Trasporti, ripete Paola De Micheli che per l’occasione ha coniato anche il claim “Italia Veloce”. Con una massiccia cura del ferro, come si diceva una volta, e specialmente al sud, sempre come si diceva (senza farlo) una volta. La titolare delle Infrastrutture annuncia che il 40 per cento dei fondi finirà da Roma in giù. E allora Napoli-Bari, ferrovie in Sicilia, metanodotti in Sardegna. E soprattutto lo Stretto. Tra tunnel, ponte e ciclabili prima o poi arriverà una decisione. Intanto, nel dubbio, la commissione istituita al Mit dovrà valutare progetti già scartati vent’anni fa attraverso un sistema di matrioske. Il cui responso arriverà solo tra due mesi.

  

Intanto, mercoledì si parte con la prima riunione importante, ma non determinante. L’occasione per tutti i ministri rossogialli di presentare idee e piani fattibili (riforme sulla giustizia e la Pa, ma anche sul fisco, certo). In un esecutivo dove nessuno – o quasi – vuole “tirare per la giacchetta” chi non c’è (Mario Draghi), ma tutti sono pronti a esibirsi nella specialità di “metterci il cappello”.

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