Si e NO. La riforma a casaccio Il referendum è il punto di arrivo di una vecchia e balorda campagna anti casta arrivata agli sgoccioli

Il taglio grillino dei parlamentari, approvato prima dalla Lega con il voto entusiasta di Meloni e poi dal Partito democratico per compiacere Giuseppe Conte, è pericoloso

Francesco Cundari, 16.9.2020 , linkiesta.it lettura 6’

Il taglio grillino dei parlamentari, approvato prima dalla Lega con il voto entusiasta di Meloni e poi dal Partito democratico per compiacere Giuseppe Conte, è pericoloso. Non solo dal punto di vista pratico, ma anche per la democrazia

La storia della riforma costituzionale – chiamiamola così, per pigrizia e per brevità – su cui saremo chiamati a pronunciarci il 20 settembre con referendum confermativo è quanto di più incredibile la politica italiana abbia prodotto negli ultimi anni. Un taglio a casaccio del numero dei parlamentari portato avanti dal Movimento 5 stelle per ragioni di propaganda, votato inizialmente anche dalla Lega per accontentare l’allora alleato di governo, poi pure dal Pd per la stessa ragione, e da tutti gli altri per non farsi scavalcare sul terreno dell’antiparlamentarismo (non per niente Fratelli d’Italia, che su questo terreno può vantare solide radici storiche, ha rivendicato di averlo votato tutte e quattro le volte, pur stando sempre all’opposizione).

Si dice che tutti i tentativi di riforma precedenti abbiano sempre contemplato un taglio dei parlamentari, ed è un classico caso in cui una mezza verità equivale a una bugia e mezza. Il nostro problema, com’è stranoto, non è che abbiamo troppi parlamentari, ma che abbiamo troppi parlamentari che fanno le stesse cose, o peggio, che fanno, disfano e rifanno le stesse leggi, nell’interminabile viavai tra la Camera e il Senato. Ed è proprio questo, infatti, il problema su cui tutti i precedenti tentativi di riforma costituzionale si erano concentrati: il bicameralismo perfetto, paritario o ripetitivo che dir si voglia. Perché è questo che rallenta, complica, rende più opaco e permeabile il processo legislativo.

Un problema che, con ogni evidenza, non è neppure sfiorato dal puro e semplice taglio lineare di un certo numero di parlamentari. Anzi, è ragionevole pensare che tra gli altri effetti negativi – indebolimento di tutti i meccanismi posti a difesa della divisione dei poteri, squilibrio della rappresentanza territoriale, disfunzionalità operativa di entrambe le Camere – il taglio avrà anche quello di consolidare, aggravandolo, quell’antichissimo problema. Mi fermo qui, perché mi sono già annoiato io a scriverlo, e immagino il lettore. Perché le concrete conseguenze della riforma non hanno niente a che vedere con il motivo per cui è stata promossa da chi l’ha promossa né con le ragioni per cui è apprezzata dai molti che la apprezzano.

A perderci troppo tempo, paradossalmente, si rischia pure di passare per quello che guarda il dito invece della luna. E la luna è semplicemente il desiderio di dare uno schiaffo alla politica e al Parlamento. O davvero credete che se il taglio riguardasse 300 deputati anziché 230, e 200 senatori anziché 115, qualcuno dei suoi sostenitori direbbe che no, così non funziona più, allora non va bene? È evidente che 200, 220 o 340 fa lo stesso.

Per i sostenitori del Sì il numero dei parlamentari è come quello degli sbarchi per i sostenitori di Matteo Salvini: è troppo alto per definizione, a prescindere, qualunque esso sia. E l’unica ragione per cui i sostenitori del taglio possono eventualmente annoiarsi a leggere quanti sono attualmente i parlamentari in Italia, in quale proporzione rispetto alla popolazione e come stiano le cose altrove, è solo ed esclusivamente per avere un argomento a difesa della propria tesi.

Argomento che per inciso non troverebbero, essendo l’Italia, per parlamentari in rapporto alla popolazione, al ventiduesimo posto su ventisette paesi Ue, ventitreesimo su ventotto contando ancora la Gran Bretagna, come mostra la tabella gentilmente fornita dal Dipartimento riforme istituzionali di Palazzo Chigi giusto nella pagina in cui illustra le ragioni della riforma (consultabile all’indirizzo www.riformeistituzionali.gov.it).

 

Ma non è questo il punto, ovviamente. O almeno non dovrebbe esserlo, se non avessimo perso del tutto il senso delle priorità (oltre che del decoro). Il punto è che dopo una vittoria del Sì – come ha candidamente riconosciuto lo stesso Goffredo Bettini in un’intervista a Repubblica del 1° agosto – l’intero equilibrio di pesi e contrappesi garantito dalla Costituzione, secondo cui sono necessarie maggioranze qualificate per eleggere il Presidente della Repubblica, i membri della Consulta, del Csm e delle Authority, nonché per modificare la stessa Costituzione, sarebbe a rischio.

Di fatto, dipenderebbe dalla legge elettorale. E basterebbe davvero poco perché la disproporzionalità prodotta dal sistema di voto, da un eventuale premio di maggioranza, dalla torsione maggioritaria implicita nella riduzione dei seggi – da una qualunque combinazione di questi fattori, appositamente ricercata dalla maggioranza di turno o anche frutto del caso – consegnasse al vincitore delle elezioni quei famosi «pieni poteri» da cui l’attuale governo avrebbe dovuto metterci al riparo.

Ecco quale dovrebbe essere l’oggetto del dibattito, se stessimo al merito della questione. Ma non ci stiamo, lo so. Perché il referendum di oggi è il punto di arrivo di una lunghissima campagna, che ha avuto il suo ultimo e più forte punto di condensazione nel 2007 attorno al libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, «La casta», che poi era a sua volta la raccolta di una serie di articoli usciti sul Corriere della Sera.

La campagna è divenuta presto martellante. Sui giornali, in tv, in libreria, non si è più scritto e parlato d’altro. Ne sono nati veri e propri generi e sottogeneri letterari, format televisivi, un partito politico tutto intero. E adesso persino una riforma della Costituzione. Se passasse, Stella e Rizzo meriterebbero di essere citati tra i padri costituenti, perlomeno a pari titolo di Luigi Di Maio.

Non hanno soltanto regalato la parola d’ordine della lotta contro «la casta» ai Cinquestelle e a tutti i populisti del pianeta (anche in Francia, per dire, Marine Le Pen se ne è subito appropriata). Molto di più. È grazie a loro che l’espressione «costi della politica», fino a quel momento raramente utilizzata, è diventata il tema dominante del dibattito pubblico. Un’affermazione che è già una vittoria, evidentemente. Una volta stabilito che la politica, il Parlamento, la democrazia sono un «costo», per non dire uno spreco, è chiaro quale sia il passo successivo.

E così abbiamo passato gli ultimi anni a leggere sui giornali del prezzo del pesce al ristorante del Senato o del taglio di capelli dal barbiere della Camera, e abbiamo discusso seriamente di come e quanto fosse giusto tagliare o chiudere l’uno e l’altro (sono stati chiusi entrambi, per la cronaca). Il problema è che dall’auto blu, il barbiere e la spigola, com’era prevedibile, siamo passati a tagliare direttamente i seggi. Ma con lo stesso criterio e per la stessa ragione: lo sfregio. Come se non fosse già sfregio sufficiente averli riempiti di statisti del calibro di Danilo Toninelli e Laura Castelli. E allora lasciamo perdere il merito tecnico della questione, di cui si è già detto l’essenziale, e cioè che è una riforma dannosa dal punto di vista pratico e pericolosa dal punto di vista democratico.

Tralasciamo pure, per pietà e perché non abbiamo tempo da perdere, la questione dei «correttivi» che il Partito democratico aveva giustamente invocato come condizione per votare la riforma, e che non ha ottenuto, pur avendola votata (saranno finiti nello stesso cassetto delle modifiche ai decreti sicurezza, chi lo sa). Restiamo sul terreno su cui ci hanno voluto portare i sostenitori della riforma: i costi della politica. Mettiamoli pure tutti in fila, questi fondamentali risparmi. Facciamo anche finta di non vedere il trucco, quando mettono nel conto dei risparmi il totale degli stipendi dei parlamentari, dimenticando di sottrarre la non piccola quota che ritorna allo Stato in tasse (è da questi particolari che si giudica un imbroglione, e loro non sono dei fuoriclasse nemmeno in questo).

Ma mettiamo anche, nell’altra colonna, i costi dell’antipolitica. E questi ce li abbiamo proprio sotto gli occhi, ogni giorno. Non parlo del costo delle migliaia di navigator assunti per trovare lavoro a se stessi, degli esperti del Mississippi che viaggiano solo in prima classe, dei consulenti e degli staff ministeriali raddoppiati o triplicati rispetto agli esecrati predecessori, delle famigerate auto blu che seguono i ministri in carovane degne di un sultano. Parlo semplicemente di ciò che è diventata la politica italiana, dal merito delle scelte compiute al linguaggio, al modo di esprimersi, alla cultura media dei suoi protagonisti. Parlo soprattutto del trasformismo – tradizione antica in cui ci siamo sempre distinti – che ha ormai polverizzato ogni record precedente.

Al punto che lo stesso presidente del Consiglio, con tutto il suo partito, può allearsi con il principale partito dell’opposizione e formare con esso un nuovo governo, in nome della necessità di impedire l’ascesa al potere di quelli con cui governava fino a un minuto prima. Se ve lo avessero raccontato qualche anno o anche qualche decennio fa – in quei tempi disgraziati in cui i parlamentari si potevano ancora tagliare i capelli gratis e pagare due soldi una spigola, e i loro leader si chiamavano Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Ugo La Malfa – ci avreste creduto?

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