L'Europa allarga le maglie per gli aiuti di stato, ma l'Italia non ha soldi

Il Temporary framework permetterà ai governi di coprire le perdite delle imprese in crisi a causa del Covid, ma il nostro Paese è troppo indebitato per approfittarne

MARIAROSARIA MARCHESANO 18 OTT 2020 ilfoglio.it

TEMPORARY FRAMEWORK UNIONE EUROPEA PMI

Con il perdurare della crisi Covid, che sta entrando nella seconda ondata, la Commissione europea ha deciso di allargare le maglie per gli aiuti pubblici alle imprese, il cosiddetto Temporary framework. Quest’ultimo altro non è che una deroga agli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che, appunto, vieta gli aiuti di stato. Considerando che le restrizioni necessarie per contenere la diffusione del virus continua a colpire direttamente le catene di approvvigionamento e i consumi – questo è il ragionamento della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen – è stato deciso di prorogare fino a giugno 2021 la possibilità di andare in soccorso alle imprese che affrontano un’improvvisa carenza o un’indisponibilità di liquidità, in particolare quelle di piccole dimensioni “che sono particolarmente a rischio”. Dunque, tutte le misure che sono già in corso possono essere rinnovate dai governi, dagli aiuti diretti alle garanzie sui prestiti e anche gli interventi sull’ equity, vale a dire le ricapitalizzazioni con soldi pubblici. E c’è una novità che, in teoria, potrebbe rappresentare un importante sostegno per il sistema produttivo dell’Italia costituito in stragrande maggioranza di pmi.

Nell’ultima versione emendata del Temporary framework (che non è ancora, però, quella definitiva) compare una misura che prevede la possibilità di rimborsare i costi fissi (quindi, anche i canoni di affitto, le bollette e il costo del lavoro) ai quali l’impresa non è riuscita a far fronte nel periodo che va dal primo marzo 2020 al 30 giugno 2021. Più nel dettaglio, i governi potranno coprire fino al 90 per cento dei costi fissi di una piccola azienda e fino al 70 per cento di un’azienda un po’ più grande, ma sempre con un tetto massimo di tre milioni di euro. La condizione per ottenere questo contributo è aver subito una perdita di fatturato nel periodo ammissibile che sia almeno del 30 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. La premessa della Commissione è che “date le dimensioni limitate del bilancio dell’Ue, la risposta principale verrà dai bilanci nazionali degli stati membri”. Dunque, ogni paese può andare incontro alle imprese in base alle sue disponibilità e non è chiaro se, per caso, si potrà attingere dalle risorse che arriveranno con il Recovery fund. Se questa strada, come probabile, fosse esclusa, l’unico modo resterebbe quello del debito e qui basta fare un banale calcolo per capire che la copertura dei costi fissi delle aziende – che tanto farebbe comodo, per esempio, agli operatori del settore turistico-alberghiero, che quest’anno ha subito un calo di presenze del 56 per cento, oltre che alle attività produttive che sono state colpite – rischia di restare sulla carta proprio in Italia che ne avrebbe più bisogno.

Nel nostro paese si contano circa cinque milioni di piccole imprese. Se il governo volesse rimborsare anche solo 1.000 euro per ciascuna di queste dovrebbe spendere 5 miliardi di euro, che è il doppio di quanto sono costate alle casse pubbliche le moratorie sui prestiti per una sospensione di 11 mesi (altri cinque mesi costerebbero 1 miliardo in più e se ne sta discutendo) ed è poco meno delle risorse che sono state stanziate per finanziare il fondo centrale di garanzia per le Pmi (7 miliardi). E’ chiaro che non tutti i 5 milioni di imprese hanno subito perdite con il Covid, ma queste cifre fanno capire quanto sia difficile per l’Italia – che ha un rapporto deficit-pil già vicino al 160 per cento – approfittare della maggiore flessibilità europea se questa vuol dire fare ancora più debito. Insomma, la coperta è corta e il Temporary framework lo mette ancora più in luce, mentre misure di questo genere possono essere una panacea per paesi con più ampi margini di manovra fiscale come la Germania, che ha un sistema manifatturiero basato su alcuni grandi produttori multinazionali che alimentano a valle un indotto fatto, appunto, di una miriade di piccole realtà.

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