Di certo c'è solo che entra lo stato (attraverso Arcuri). Tutte le incognite dell'accordo Ilva

Mentre ArcelorMittal è pronta ad abbandonare la controllata italiana al suo destino, il governo rientrerà nell'acciaieria di Taranto, che ha già gestito in maniera fallimentare dal 2012 al 2018

ANNARITA DIGIORGIO 02.12. 2020 ilfoglio.it lettura3

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C’è rimasto solo il segretario nazionale della Uilm, Rocco Palombella, forse perché tarantino e lavoratore Ilva, nella totale assenza dell’opposizione, a difendere il lavoro e lo sviluppo: “Non possiamo fidarci a scatola chiusa dell’ingresso dello stato nella società con ArcelorMittal, perché è lo stesso che ha gestito gli stabilimenti dal 2012 al 2018 con un fallimento sotto ogni punto di vista. Inoltre si rischia che Ilva venga strumentalizzata a fini politici tra le diverse fazioni presenti nella maggioranza”. La rottura tra i due partiti di governo – con l’assurdo che ora il grillino Patuanelli smentisce la decarbonizazzione e accantona l’acciaio a idrogeno, mentre il Pd chiede la chiusura dell’area a caldo – l’ha sollevata anche il segretario generale della Uil Taranto Gianfranco Turi, che ha bollato come incomprensibile la posizione del Pd che “si allontana sempre di più dal mondo del lavoro”.

Ma ormai ArcelorMittal è lontano dall’Italia da tempo. Precisamente da quando il Parlamento ha tolto lo scudo penale. Mentre non si sa che fine abbiano fatto le due indagini penali avviate esattamente un anno fa dalle due procure di Taranto e Milano che, nel mezzo dello scontro con il governo, entrarono a sirene spiegate in fabbrica. Da allora ArcelorMittal ha abbandonato Ilva. Prima ha sostituito il suo ad belga, poi ha fatto rientrare a Londra più di 40 storici dirigenti. L’ultima tassello è di un paio di settimane fa con lo smantellamento totale dell’ufficio commerciale di Milano, sostituito dall’ad Lucia Morselli con Alessandro Faroni già dirigente Riva. Di ArcelorMittal in Ilva non resta più nulla, e appena siglato l’accordo gli indiani abbandoneranno la controllata italiana Am Investco al suo destino. Non a caso è già partito il balletto sul nuovo cda. Dei 6 componenti del nuovo consiglio, tre andranno ad Invitalia insieme alla designazione del presidente che probabilmente sarà Ernesto Somma, braccio destro di Domenico Arcuri, e tre ad ArcelorMittal con la designazione dell’amministratore delegato. Non è detto che continui a essere Lucia Morselli, vicina al viceministro dell’Economia Misiani e al presidente della regione Puglia Emiliano, ma molto meno alla proprietà londinese e ai lavoratori in fabbrica.

L’ingresso dello stato nella gestione societaria dell’Ilva, di cui è sempre proprietaria l’amministrazione straordinaria, avverrà al 50 per cento con una spesa iniziale di 400 milioni che Invitalia aveva ricevuto con il decreto di salvataggio della Banca popolare di Bari. A questi vanno aggiunti almeno gli altri 100 milioni risparmiati da ArcelorMittal con il dimezzamento del canone di affitto da versare a Ilva in amministrazione straordinaria, e quelli dei debiti contratti da Mittal in questi anni (ad esempio verso Sanac, o l’indotto locale) e che ora saranno riversati a metà con il pubblico. E’ stato lo stesso Arcuri ad annunciare il nuovo piano ai sindacati: Ilva entro il 2025 produrrà otto milioni di tonnellate di acciaio all’anno. A oggi ne produce 3,2 e l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) ne consente fino a un massimo di 6, limite fissato dalla valutazione del danno sanitario redatta ogni anno da Arpa e Asl. Quindi certamente servirà una nuova Aia, mentre proprio in questi giorni ArcelorMittal ha fatto ricorso contro il ministero dell’Ambiente contro la vecchia. Ora succede che anche il ricorso contro il ministro Costa passa nelle mani di Arcuri?

Il suo piano prevede un forno elettrico, un impianto a preridotto esterno, da fare con i soldi del Recovery, per venderlo alle acciaierie del nord e il rifacimento di Afo 5, l’altoforno più grande di tutti, spento dal 2015 e che ha bisogno per i lavori di due anni e 500 milioni. Cosa succede nel frattempo? 3 mila dipendenti in cassa integrazione nel 2021 (al momento ArcelorMittal ne ha chiesti 8 mila) e poi a scalare a zero fino al 2025. Ma rimarrebbero per sempre fuori i 1.700 in cassa integrazione dal 2018 in capo a Ilva in amministrazione straordinaria e mai ricollocati. Come non sono mai stati ricollocati i 500 in cassa integrazione al porto dal 2015. E difficilmente potrebbero essere impiegati tutti dai cinesi della Ferretti o nel call center della Philip Morris, fatti insediare a Taranto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mario Turco insieme all’acquario green. Tutto il piano di Arcuri poi resta sempre vincolato a un grande punto interrogativo senza il quale tutto salta. Il dissequestro dell’area a caldo, che è nelle mani di un custode giudiziario della procura dal 2012. Il segretario della Uilm Palombella lo ha detto quando fu siglato a marzo: “Questo accordo è una farsa”. Ma ora è ufficialmente nelle mani di Arcuri.

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