Scilipoti Day. La politica è finita, il populismo ha trionfato

Tutto causato dalla furia anti-casta alla quale nessuno si è opposto pensando che fare concessioni all’antipolitica potesse calmarne i bollenti spiriti. E invece siamo aggrappati a Mastella

Francesco Cundari 14.1.2021 linkiesta.it lettura4’

Alla base del carattere deprimente e grottesco di quello che sta succedendo ci sono due fattori: la riduzione dei parlamentari e il riempimento dei seggi attuali con non-politici, in gran parte inconsapevoli di sé e del proprio ruolo. Tutto causato dalla furia anti-casta alla quale nessuno si è opposto pensando che fare concessioni all’antipolitica potesse calmarne i bollenti spiriti. E invece siamo aggrappati a Mastella

Mauro Scrobogna /LaPresse

Attorno alle quattro del pomeriggio, un grande quotidiano ha avviato una diretta Facebook annunciando dichiarazioni del presidente Conte, per richiuderla quattro minuti dopo senza che nessuno fosse comparso. Chiunque fosse il responsabile, Fortebraccio sarebbe stato fiero di lui: per quanto certamente casuale, sembrava proprio un omaggio, quanto mai puntuale, a una delle sue battute più celebri: «Si aprì la porta e non entrò nessuno: era Cariglia».

Il problema è che una ventina di minuti più tardi Giuseppe Conte è comparso davvero, mentre percorreva le vie del centro col passo spedito di chi ha molto da fare, subito circondato da una ressa di giornalisti e operatori in attesa delle suddette dichiarazioni, a dispetto di tante prediche su distanze e sicurezza.

Un assembramento che si sarebbe potuto evitare, ma il capo del governo teneva troppo a dire davanti alle telecamere di essere venuto a piedi – cosa che evidentemente chi gli stava intorno e chi lo guardava da casa vedeva da sé – e di avere così potuto sentire come la gente lo incoraggiasse ad andare avanti. Dal punto di vista dello spettatore a casa, l’operazione sarebbe riuscita meglio se tale monologo non fosse stato più volte interrotto da urla assai meno incoraggianti, che decisamente non sembravano confermare il racconto.

In compenso, molti hanno assicurato che il contestatore responsabile delle interruzioni in realtà inveiva contro Matteo Renzi, il che non deporrebbe comunque a favore della riuscita dell’operazione (semmai dell’esistenza della provvidenza) e in ogni caso non darebbe conto, per esempio, delle signore che poco prima avevano interrotto la sfilata trionfale protestando per mancati o insufficienti ristori, guardando il presidente del Consiglio bene in faccia e certo senza scambiarlo per nessun altro. Dettagli che riporto solo per il gusto dispettoso che si prova nel rovinare una sfilata decisamente fuori luogo, ma che è comunque nulla rispetto allo spettacolo dato in questi giorni dal parlamento.

Alla fine dei conti, se davvero la crisi del governo Conte sarà risolta dalla svolta di Ceppaloni, come prefigurato in questi giorni dalle numerose interviste di Clemente Mastella e Sandra Lonardo, l’intramontabile power couple della politica italiana, o se invece la soluzione verrà da un nuovo accordo con Renzi, o da una qualsiasi delle altre mille ipotesi che riempiono in queste ore giornali e talk show, in fondo, è quasi un dettaglio.

Quello che conta è proprio lo spettacolo cui stiamo assistendo. Perché sappiamo tutti come in passato siano già capitati casi di trasformismo di massa piuttosto eclatanti, anche con seri risvolti giudiziari.

Mai però, che io ricordi, si era arrivati a vedere entrambi i maggiori schieramenti rivendicare pubblicamente l’intenzione di reclutare in aula nuovi sostenitori, contemporaneamente, per dir così in regime di concorrenza perfetta (se non vogliamo dire proprio in una sorta di pubblica asta).

Con centinaia di parlamentari che vagano da un retroscena all’altro, sotto le insegne delle più oscure formazioni politiche, lanciando messaggi o cercando di decifrarne, aggrappandosi spesso agli stessi cronisti che vorrebbero intervistarli, in cerca di lumi. Di qui gli scenari che da settimane prospettano maggioranze per ogni possibile governo: anarco-nichilista, nazi-maoista, centrista-rivoluzionario. Certo non un grande spot per la politica, il parlamento e le istituzioni.

Il punto però è che questa incresciosa situazione dipende, come tutti sanno, da due precisi dati di fatto. Il primo è il taglio dei parlamentari, che determina la presenza di centinaia di parlamentari matematicamente certi di non poter essere rieletti.

In particolare quelli che – ed è il secondo dato di fatto – in Parlamento sono arrivati col Movimento 5 stelle, quando tutto quello che dovevano dimostrare di saper fare era ripetere che la politica era uno schifo e che loro non ne avrebbero mai fatta neanche per finta, perché avrebbero portato la democrazia diretta, lasciando che fossero i cittadini a legiferare al posto loro e via dibattisteggiando di questo passo.

All’ultimo conteggio – messo nero su bianco da Emanuele Lauria su Repubblica il 22 dicembre – 55 tra deputati e senatori del Movimento 5 stelle, vale a dire uno su sei, aveva già cambiato casacca. E quello delle minoranze linguistiche era l’unico gruppo parlamentare in cui le illustri personalità portate in Parlamento dai cinquestelle non fossero approdate, senza mancarne nessun altro (dall’estrema destra all’estrema sinistra dell’arco parlamentare, da Fratelli d’Italia a Liberi e uguali, passando per Pd, Italia viva, Forza Italia).

Alla base del carattere particolarmente deprimente e insieme grottesco dell’attuale crisi stanno dunque questi due fattori: l’improvvisa riduzione dei seggi e il riempimento dei seggi attuali con centinaia di non-politici, in gran parte del tutto inconsapevoli di sé e del proprio ruolo. Due dati di fatto, entrambi, diretta conseguenza della ricorrente campagna antipolitica, che nel nostro paese è purtroppo ben più antica degli stessi cinquestelle.

Vedere ora quelli che volevano il vincolo di mandato invocare il governo di unità nazionale, purché a guidarlo siano ovviamente sempre loro, può far sorridere. Ma è anzitutto la conseguenza della situazione determinata dalla loro vittoria referendaria sul taglio dei parlamentari. A dimostrazione di quanto sia infondata la solita tesi sempre avanzata dai fautori dell’appeasement con i populisti, secondo cui persino lo sfregio alla Costituzione avrebbe dovuto essere una sorta di dazio da pagare per placare la furia anti-casta, mentre è vero, come si vede, l’esatto contrario: è un processo che si autoalimenta.

Più i populisti riescono a spingere in basso l’asticella del ruolo delle istituzioni e della politica, più quello stesso degrado finisce per corroborarne le tesi, al punto da travolgere pure loro nel generale discredito (come ogni elezione dal 2018 in poi ha invariabilmente certificato). È questo il grande paradosso del populismo italiano, che si autoalimenta e al tempo stesso si autodivora, mandando nel frattempo l’intero sistema politico proprio là dove il Movimento 5 stelle aveva promesso di mandarlo al suo atto di nascita.

Missione compiuta.

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