Chi sarà l’interlocutore preferito dell’Amministrazione Biden?

Il gran discorso atlantista del nostro Mr Europe spariglia il solito duello   franco-tedesco

PAOLA PEDUZZI E MICOL FLAMMINI 18.2. 2021 ilfoglio.it lett.8’

Non c’è sovranità nella solitudine, ha detto ieri Mario Draghi in Parlamento, e in un attimo ha rimesso in ordine quello che molti dei parlamentari che lo ascoltavano avevano disordinato: non cinquant’anni fa, fino l’altroieri. Con precise e sapienti parole, Draghi ha descritto la posizione dell’Italia in Europa e nel mondo insistendo sull’ancoraggio atlantico e democratico del nostro paese (“nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili princìpi e valori”) e scandendo un presupposto rilevante: “Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma fuori dall’Europa c’è meno Italia”. Il nazionalismo, i “first” che si sono accumulati dentro e fuori i nostri confini, hanno definito una nuova solitudine geopolitica, “l’inganno di ciò che siamo, l’oblio di ciò che siamo stati e la negazione di quello che potremmo essere”. L’Italia forte in un’Europa forte sconfigge l’illusione dell’alleanza tra sovranismi, sconfigge la solitudine cui il sovranismo condanna ogni stato e permette di dire, come ha detto Draghi: “Questo governo sarà convintamente europeista e atlantista in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza atlantica, Nazioni Unite”, gli ancoraggi che hanno portato “benessere, sicurezza e prestigio internazionale”. Il programma prevede: priorità a Balcani, Mediterraneo allargato, Libia, Mediterraneo orientale, Africa – il nostro vicinato più prossimo: Draghi sottolinea “una specifica sensibilità mediterranea”, sulla quale avevano lavorato molto anche i governi Renzi e Gentiloni. Ci vuole un dialogo “virtuoso” con la Turchia, partner della Nato e quindi interlocutore da tenere attaccato; “meccanismi di dialogo” sono necessari anche con la Russia pure se il deteriorarsi del rispetto dei diritti lì e in Asia, “intorno alla Cina”, non può essere ignorato. L’occasione dell’Italia è la presidenza del G20, l’asse con il Regno Unito che presiede il G7: questi sono i luoghi per dare concretezza alle proposte strategiche. Con la consapevolezza che oggi l’Amministrazione americana “prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell’Europa”. Draghi è “fiducioso” che questo nuovo assetto, la sconfitta della solitudine e il solco atlantico-europeista possano costruire un multilateralismo efficace, indispensabile oggi – perché Draghi è convinto che la pandemia non ha rafforzato i regimi, ha rafforzato le democrazie e il metodo della collaborazione.

Con questo discorso, Draghi non soltanto ha fatto ordine ma ha anche sparigliato il dibattito di questi ultimi giorni riguardo a chi debba essere l’interlocutore privilegiato in Europa del presidente Joe Biden. C’è chi dice che sia Angela Merkel, guardiana in questi anni di un atlantismo riveduto e corretto a causa della presenza di Trump; c’è chi dice Emmanuel Macron, cantore del rinascimento europeo e della sua autonomia strategica. Ma c’è anche un nuovo, inatteso “pivot Draghi”, contro la solitudine sovranista, rivolto all’America, ma solidamente europeo. Siamo andate a vedere com’è e come si concilia con l’America di Joe Biden: per entrambi, intanto, “l’unità non è un’opzione, è un dovere”.

Non c’è sovranità nella solitudine”, ha detto Draghi riposizionando l’Italia sui pilastri della Nato e dell’Ue

 

Il discorso di Biden. Venerdì è atteso il primo discorso sulle relazioni transatlantiche del presidente americano. L’occasione è la conferenza di Monaco, l’appuntamento annuale (quest’anno in versione da remoto) della terapia di coppia Europa-America (è sempre nei giorni di San Valentino). L’anno scorso si è discusso di un mondo sempre meno occidentale, del vuoto pauroso lasciato dai sovranismi solitari e isolazionisti. Quest’anno il tema è, come ha detto il fondatore e animatore di questo appuntamento Wolfgang Ischinger: cosa possiamo fare per convincere gli americani che proteggere l’Europa è una buona idea? Quest’anno Biden vuole tessere di nuovo la trama della coppia transatlantica, rassicurando l’alleato europeo, dando forma a quello che il suo segretario di stato, Tony Blinken, diplomatico che ha molti rapporti solidi con gli europei, ha detto in tutte le salse: impariamo a fidarci di nuovo l’uno dell’altro. Questo è il quadro di contorno, poi certo non bisogna farsi illusioni: è una collaborazione con molte divergenze, quella transatlantica, lo era prima delle martellate trumpiane e lo è ancora oggi. Nel merito dei dossier (quello tech è il più evidente di tutti) e anche nell’equilibrio geopolitico: l’Europa che cerca la propria autonomia strategica si è già messa di traverso con l’America sulla Cina, non una cosa da niente.

Il peso di Draghi. Non si vedeva un presidente così interessato al rapporto con l’Europa, un presidente più “atlantico” dai tempi di Bush padre, ci dice Marta Dassù, direttrice di Aspenia, esperta di questioni internazionali, parlando di Joe Biden. “L’America di Biden si aspetta che l’Europa faccia la sua parte sugli oneri della difesa europea, sul contenimento della Cina e sulle sanzioni alla Russia. Non sarà esattamente una passeggiata. E sarebbe un errore pensare che si torni al passato, chiusa la parentesi Trump”. La volontà di rimettere insieme i pezzi dell’alleanza c’è, è forte, è solida, ma in questi anni sono cambiate molte cose, anche gli europei, e se gli Stati Uniti vogliono dialogare la domanda è chi sceglieranno, su chi, tra gli alleati europei, si appoggeranno per rinvigorire l’atlantismo. “La Germania, con il suo peso decisivo nell’Ue resta comunque un interlocutore europeo indispensabile per gli Stati Uniti. Lo stesso vale per la Francia e per la Gran Bretagna, anche dopo la Brexit. Il rischio, per l’Italia, è uno schema di Europa a tre, che ha già fatto le sue prove nel negoziato sull’Iran, ma Draghi è un possibile antidoto al rischio di marginalità dell’Italia”. La sua voce, ci dice Dassù, “peserà nel Consiglio europeo e anche perché l’Italia presiede quest’anno il G20. Va tenuto conto che la nuova agenda transatlantica ha al centro questioni – ripresa dopo la pandemia, lotta al climate change, commercio, servizi digitali, competizione tecnologica con la Cina – dove il ruolo dell’Ue è e sarà molto rilevante. E siccome Draghi avrà un peso notevole al tavolo di Bruxelles, anche l’Italia lo avrà per gli Stati Uniti”. Dall’elenco delle questioni internazionali, il presidente del Consiglio sembra pronto ad avere un ruolo centrale e sentendolo anche a noi è sembrato di tornare sulla scena internazionale. L’Italia dovrà prendere in mano dossier e dare risposte che finora non era stata chiamata a dare, come chiarire cosa pensa, per esempio, del concetto di autonomia strategica: “Devo dire che autonomia strategica suona come una formula abbastanza vuota. La Germania, perlomeno in epoca Merkel, tende a declinarla così: rafforziamo il pilastro europeo nella Nato, e questa cosa va bene anche all’Italia. La Francia tende a insistere di più sulla possibilità che gli europei siano in grado di agire da soli, specie in una fase in cui le priorità degli Stati Uniti sono interne o rivolte verso l’Asia-Pacifico. Il dibattito vero dovrebbe vertere sulle capacità militari europee e sulle responsabilità rispettive di Europa e Stati Uniti. Credo che l’Italia debba concentrarsi su questi due punti”. E poi c’è la sfida del secolo, la Cina, più difficile da affrontare ora, per gli europei, che quando c’era Trump. L’Ue ha accolto la proposta di Biden di un summit per la democrazia nel 2021, alcuni europei non sono d’accordo, “soprattutto quelli di scuola realista”, ma, ci dice Dassù, al di là del summit per la democrazia, “la questione di come rispondere all’ascesa della Cina è problematica sul piano transatlantico. Gli europei parlano di ‘rivale sistemico’ ma guardano soprattutto ai rapporti economici, la Germania per prima. Berlino non crede affatto che all’Europa convenga essere trascinata in una specie di Guerra fredda hi-tech fra Washington e Pechino. E non pensa che sia possibile un decoupling economico, visto il peso della domanda cinese. Un rapporto appena pubblicato dall’European Council on Foreign Relations dimostra che tentazioni neutraliste sono molto diffuse non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi europei”.

Il vertice della Nato. In questi giorni si riunisce (sempre da remoto) “il primo incontro dell’Amministrazione Biden”, come ha detto il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg. In cima alle priorità c’è l’iniziativa “Nato 2030”, meglio noto come: che ne sarà dell’Alleanza atlantica? Secondo Stoltenberg, le priorità sono: aumentare i fondi per deterrenza e difesa; rafforzare la resilienza degli alleati; preservare i vantaggi tecnologici della Nato; aumentare il coordinamento politico; cooperare con partner che hanno un approccio e obiettivi simili. L’attesa più grande è ovviamente per il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, che ha pubblicato un articolo sul Washington Post all’inizio della settimana in cui ha preannunciato il suo messaggio ai colleghi dell’Alleanza: “ Consult together, decide together and act together”, coordinamento assoluto. Anche qui c’è l’obiettivo di sconfiggere la solitudine: l’America non può essere l’America da sola, per questo c’è bisogno della Nato. Questa è la premessa di vertici di nuovo armoniosi: ci sarà da non illudersi troppo.

“L’unità non è un’opzione, è un dovere”: vale tanto per l’Italia di Draghi quanto per l’America di Biden

Il mondo multipolare. Con il concetto europeo di autonomia strategica gli americani hanno un rapporto complesso e ambivalente. Secondo Hans Kribbe, politologo, autore di “The Strongmen”, libro sulla nuova grammatica del potere fatto non più di regole ma di forza – uno degli uomini forti del libro era Trump – “gli americani amano l’idea di un’Europa autonoma, più forte, in grado di creare un asse transatlantico che aiuti anche l’America a recuperare potere. Ma nel momento in cui, in questa autonomia, gli europei prendono una strada che non si concilia con gli interessi americani, ecco che il rapporto con il concetto di autonomia strategica si fa burrascoso”. L’Amministrazione Biden è intenzionata a recuperare il suo rapporto con Bruxelles, ma gli europei in questi anni hanno iniziato a prendere strade diverse, si sono abituati, più di quanto loro stessi possano ammettere, a un mondo con un’America distratta e, negli ultimi quattro anni, anche dispettosa. “La luna di miele, ci dice Kribbe, è finita prima di cominciare e gli interessi europei non sempre coincidono con quelli di Washington come nel caso dei rapporti con la Cina”. Le cose in comune con gli americani rimangono molte, i valori, la democrazia, il liberalismo, cominciano a divergere gli interessi. “Biden spinge per una coalizione di nazioni democratiche pronte a opporsi alla Cina, ma sembra chiaro che né in Francia né in Germania ci sia questa volontà. Ci sono dietro questioni economiche, geografiche e anche storiche, l’America vorrebbe ristabilire il suo peso nel mondo, che è stato a lungo unipolare, ma gli europei credono che sia arrivato il momento di vivere in un mondo multipolare”. L’Europa in questa multipolarità ha meno da perdere rispetto agli Stati Uniti, perché è da tempo che si   è disabituata a essere la guida del mondo, non è interessata a una coalizione contro Pechino. “Spesso la politica estera è un compromesso tra valori e altri interessi come la stabilità o il commercio e per questo Washington e Bruxelles stanno andando in direzioni diverse. Non è questione di preferenze, l’Ue non preferisce la Cina agli Stati Uniti, ma vuole iniziare a decidere secondo la sua convenienza, non vuole dover scegliere tra un polo e l’altro. L’alleanza con Washington rimane, ma con la Cina vuole farci affari”. Eccolo l’atlantismo rivisitato di Angela Merkel che si intreccia con l’ambizione di Macron dell’autonomia strategica. Ma tra i due è la cancelliera quella che sembra più pratica e orientata a proteggere gli interessi economici prima dell’atlantismo. “Non vedo grandi differenze tra Parigi e Berlino. E’ vero che l’accordo sugli investimenti è stato voluto fortemente dalla Germania, ha più interessi, ma la Francia non si è opposta”.

C’è grande attesa per il primo discorso di Biden sulle relazioni transatlantiche, ma dopo anni in cui tra alleati è sembrato di non capirsi più, per quanto gli interessi siamo cambiati, sembra che si stia ritrovando una lingua in comune. Questo linguaggio di nuovo comprensibile, scandito bene ieri dallo stesso Draghi ci ha fatto tornare in mente la storia di una lingua che in tanti davano ormai per estinta o quanto meno, dice l’Unesco, a rischio estinzione: il giudeo spagnolo. La lingua era parlata dagli ebrei sefarditi nella penisola iberica e in alcune zone dell’ex impero ottomano, in spagnolo si chiama ladino ma non si deve confondere con il ladino che si parla in Italia. Durante la pandemia tantissimi ragazzi hanno deciso di mettersi a studiarla per recuperare le loro radici comuni. E il successo è stato incredibile, la lingua ha ricominciato a vivere e più persone hanno cominciato a capirsi, a parlarsi, a scoprirsi. Proprio quello che Unione europea e America hanno smesso di fare in questi ultimi anni. Ma adesso che la lingua dell’alleanza è quella di Biden, sembra anche di tornare a capirsi in questa terapia di coppia. Gli esperti di queste terapie dicono che trovare le parole è già un passo grande: unirsi contro la solitudine poi, che enormità

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