Modello Arafat. La doppiezza del M5s che parla di pace su Repubblica e di guerra santa sul Fatto

Mentre Fico e Di Maio rilasciano interviste rassicuranti verso il presidente del Consiglio e il governo, Conte si dice intenzionato a fare campagna elettorale sulla promessa di smontarne le riforme

Francesco Cundari 9,8,2021 linkiesta.it lettura3’

Un ingenuo potrebbe pensare che il problema del rapporto tra il Movimento 5 stelle e il governo Draghi sia una questione di percezione. In fondo, potrebbe dire, dipende da quale giornale si legge. Il lettore di Repubblica, per esempio, ieri è stato rassicurato dalla voce autorevolissima della terza carica dello Stato, Roberto Fico, la cui intervista era titolata con un inequivocabile: «Con Draghi il Movimento lavora bene». Parole che sembravano fare il paio con quelle pronunciate pochi giorni prima da Luigi Di Maio, sempre su Repubblica, in un’intervista dal titolo ancora più netto: «Niente scossoni, chi minaccia il governo affossa la ripresa del Paese». In compenso, il lettore del Fatto quotidiano, appena due giorni fa, ha potuto leggere un’intervista a Giuseppe Conte, la prima in qualità di leader eletto, dal titolo ben diverso: «Nel 2023 campagna elettorale per cambiare la legge Cartabia».

Un lettore appena un po’ meno ingenuo potrebbe attribuire la differenza – non piccola, nei toni e nella sostanza – alle diverse posizioni dei tre esponenti nella geografia interna del Movimento 5 stelle: più governativi Di Maio e Fico, assai meno Conte. E certo coglierebbe un punto: non per niente furono proprio Di Maio e Fico a gettare acqua gelata sui sogni di gloria dell’avvocato, quando era già pronto a lasciare il movimento per costruirsi il suo partito, nel momento più acuto della tensione con Beppe Grillo, che per l’occasione gli aveva dato pubblicamente dell’incapace (né ha mai sentito il bisogno di rivedere il giudizio). Furono Fico e Di Maio, chiarendogli che non lo avrebbero seguito, a costringere Conte a un’umiliante mediazione con il garante, il quale non per niente è stato anche il principale responsabile della svolta che ha portato il Movimento 5 stelle dalla linea «o Conte o il voto» al pieno sostegno a Mario Draghi.

Ma parliamo pur sempre di uno – Di Maio – che fino a un mese prima di andarci al governo registrava un videomessaggio in cui non solo diceva di non voler avere «niente a che fare» con il Pd, ma motivava la scelta con l’accusa, rivolta ai democratici, di togliere «alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli». Quanto a Fico, c’è bisogno di rifare tutta la storia del leader della presunta corrente di sinistra, che avallò il governo con Matteo Salvini in cambio della presidenza di Montecitorio?

La verità è che tra Conte, Di Maio e Fico non c’è alcuna sostanziale differenza (salvo il fatto che Di Maio, dei tre, è quello che sembra avere imparato meglio il mestiere). Nulla permette insomma di escludere che domani o dopodomani, cambiando il gioco d’incastri delle rispettive convenienze e delle reciproche marcature, gli uni tornino barricadieri e l’altro ridiventi moderato e governativo.

Quello che dovrebbe preoccupare il governo – e il Partito democratico, che con questi maestri di coerenza e affidabilità vorrebbe stringere un’alleanza – è il palese e persino rivendicato doppiogiochismo di tutto il movimento, culminato in un accordo proprio sulla riforma della giustizia prima votato in Consiglio dei ministri e un minuto dopo stracciato anche da coloro che l’avevano sottoscritto (a cominciare dalla ministra Fabiana Dadone, che è arrivata persino a minacciare le dimissioni qualora il testo fosse rimasto quello da lei votato).

Un tempo gli esperti di Medio Oriente ammonivano a non tenere in gran conto i discorsi di Yasser Arafat in inglese, e di prestare attenzione a quel che subito dopo diceva in arabo, cioè quando parlava alla sua gente, ed era assai meno pacifista e accomodante di quanto risultasse davanti ai giornalisti occidentali. Per lo stesso motivo, per chi voglia capire la direzione in cui si muoveranno i cinquestelle, appaiono assai più significative le parole di Conte al Fatto, giornale capofila di una virulenta campagna contro il governo, che le buone intenzioni professate da Fico e Di Maio su Repubblica.

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