Lucano come Bija? La follia di un’Italia che tratta i sindaci come trafficanti e i trafficanti come statisti

In nome della lotta all’immigrazione clandestina la politica di accoglienza è messa fuori legge a Riace, mentre lo Stato, in nome dello stesso principio, continua a finanziare generosamente gli schiavisti libici

Francesco Cundari, 1.10.2021 linkiesta.it lettura3’

È davvero uno strano paese quello in cui i sindaci sono trattati come trafficanti e i trafficanti sono trattati come statisti: in nome della lotta all’immigrazione clandestina la politica di accoglienza è messa fuori legge a Riace, mentre lo Stato italiano, in nome dello stesso principio, continua a finanziare generosamente trafficanti e torturatori libici. Abdul Rhaman Milan, meglio noto come «Bija», capo della cosiddetta guardia costiera, qualche anno fa è stato gentilmente invitato al ministero della Giustizia e al Viminale, mentre il sindaco Mimmo Lucano è stato condannato ieri a tredici anni e due mesi, come fosse il capo di chissà quale organizzazione criminale.

Leggeremo le motivazioni della sentenza, come si dice in questi casi, ma quello che abbiamo sentito fin qui non può non lasciare sconcertati. Si può credere che Lucano sia un pasticcione, che abbia peccato di leggerezza, che abbia fatto casini tali da giustificare pesanti ammende o magari persino una condanna per abuso d’ufficio (che del resto, in Italia, non si nega a nessuno), ma davvero non si può credere che meriti una pena più pesante di quella inflitta a Massimo Carminati, il Nero della banda della Magliana, per Mafia Capitale.

Quella che colpisce Lucano è una sentenza che sembra scritta da Luca Morisi, in cui è difficile non vedere l’intreccio perverso dei due peggiori filoni del populismo italiano: la criminalizzazione della politica e la criminalizzazione dell’immigrazione, dell’esclusione e della diversità. Due filoni che alla lunga finiscono sempre per ricongiungersi, come la recente storia della politica italiana ha ripetutamente insegnato (sfortunatamente la storia della politica italiana trova raramente buoni scolari).

La tragedia, troppo a lungo oscurata dall’impropria polarizzazione che Silvio Berlusconi ha consapevolmente alimentato per tanti anni, non è che la magistratura faccia politica. La tragedia è che fa antipolitica, perché troppi magistrati sono imbevuti di una cultura e di un’idea della propria funzione che stanno alla giustizia e allo stato di diritto come le teorie no vax stanno alla scienza e alla sanità pubblica (come dimostrano, in tema di vaccini, le fatiche editoriali di alcuni noti magistrati e dei loro ancor più noti prefatori).

Il cospirazionismo giudiziario è ormai una cultura condivisa da pubblici ministeri, giudici, giornalisti, attori, registi: siamo tutti costantemente immersi in una sorta di interminabile docu-fiction che passa indifferentemente dagli articoli di giornale alle sentenze, dalle serie tv ai telegiornali.

La dice lunga sulla gravità della situazione anche il fatto che tra i primi a solidarizzare con Lucano ci sia quel Luigi de Magistris che proprio con questo genere di inchieste si è fatto un nome, costruendosi una brillante carriera politica sulla solida base dei suoi insuccessi giudiziari, e che oggi, dopo aver fatto il sindaco di Napoli, corre per la presidenza della Regione Calabria (Lucano è candidato nelle sue liste).

Così, ancora una volta, nell’incalzante cambio di scena tra caso Morisi e caso Lucano, destra e sinistra si scambiano i ruoli. Ma il copione è sempre lo stesso: la tenzone tra garantisti e giustizialisti. Una recita tanto meno credibile nel momento in cui tutti i partiti continuano a candidare ciascuno i pubblici ministeri che hanno indagato sugli altri, alimentando sui mezzi di comunicazione quella gogna eterna che pure, prima o dopo, dovranno provare sulla propria pelle, e dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le bufale dei loro spregiudicati social media manager.

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