Le crisi aziendali .Intervista a Giampietro Castano: “Strategico è solo il lavoro, non il prodotto”

Ha gestito circa 500 dossier aziendali, tra crisi e ristrutturazioni, molte delle quali risolte positivamente. Tra questi: Bridgestone, Omsa, Grimeca, Miroglio, Whirlpool-Indesit, Ideal Standard e SGLCarbon

Ilaria Donatio 16.11. 2021 ilriformista.it lettura6’

Responsabile della cabina di regia per la gestione delle crisi aziendali presso il Mise – dal 2007 al 2019 – Giampietro Castano ha gestito circa 500 dossier aziendali, tra crisi e ristrutturazioni, molte delle quali risolte positivamente. Tra questi: Bridgestone, Omsa, Grimeca, Miroglio, Whirlpool-Indesit, Ideal Standard e SGLCarbon.

Ha vissuto da “co-protagonista” tante crisi aziendali: quale lezione che ne ha tratto?

La chiara consapevolezza che le crisi aziendali offrono anche molte opportunità che vanno colte e indirizzate. La crisi del 2008 e degli anni a seguire è stata sostanzialmente gestita con il ricorso massiccio alla Cassa Integrazione: un intervento che ha attutito la crisi sociale determinata dalle centinaia di migliaia di posti di lavoro persi, senza però dare una risposta a quei territori che hanno perso una parte della loro ricchezza economica.

Per esempio?

La chiusura della Fiat di Termini Imerese ha significato, per il territorio, la perdita di circa 2.500 posti di lavoro che, a distanza di 10 anni, non sono stati in alcun modo recuperati, mentre fino ad ora la Cassa Integrazione è stata garantita. Questa esperienza dimostra che alla tutela sociale va affiancata un’azione di ripristino (almeno parziale) della ricchezza produttiva attraverso nuovi insediamenti produttivi, evitando che le imprese in crisi o che cessano l’attività siano relegate nell’ambito dell’archeologia industriale. Finalmente ora si comincia ad immaginare anche una normativa funzionale a questo obiettivo. In questo senso mi ritengo un pioniere.

Qual è stata la trattativa più difficile?

Non ce n’è una sola, per fortuna, altrimenti il lavoro sarebbe stato troppo noioso. Qui ne ricordo due, di aziende ancora fiorenti. La prima riguarda la Bridgestone di Bari: la proprietà giapponese aveva deciso di chiudere definitivamente, ma con un impegno davvero straordinario dei lavoratori (che hanno rinunciato a una parte importante del loro salario), dei sindacati e delle istituzioni locali e centrali si è riusciti a far cambiare idea ad una multinazionale che non l’aveva mai cambiata. Ora l’azienda produce pneumatici di alta gamma, fa investimenti, ha recuperato tutti i posti di lavoro persi e si dice faccia utili.

E la seconda?

Riguarda la Acciai Speciali di Terni, ancora per pochi mesi di proprietà della tedesca ThyssenKrupp e prossimamente del Gruppo Arvedi di Cremona che ne diventa il nuovo proprietario. È stato lo scontro sindacale più duro al quale abbia mai assistito: 40 giorni di sciopero ad oltranza. E tutta la città schierata al fianco dei lavoratori per impedire che i 400 licenziamenti richiesti diventassero l’anticamera della chiusura definitiva di una realtà economica senza la quale Terni avrebbe iniziato una fase di grave degrado economico. Anche in questo caso è stata essenziale la regia del Ministero che ha permesso di trovare in extremis una intesa per nuova strategia industriale con investimenti, recupero di efficienza e (parzialmente) della occupazione.

Che cosa insegnano questi casi?

In queste settimane, in tanti parlano a vanvera di delocalizzazione o, al contrario, di terrorismo antindustriale che farebbe fuggire dal nostro Paese gli investitori stranieri. Questi esempi ricordano che le multinazionali si tengono e si attraggono se sai offrire loro un quadro di riferimento serio, con interlocutori credibili e disponibilità a trovare soluzioni economicamente valide.

Cosa pensa delle relazioni industriali del nostro Paese?

Che attraversano una oggettiva crisi. Si rinnovano i contratti nazionali, si fanno accordi interconfederali (persino sulla rappresentanza), si fa contrattazione aziendale, ma senza una cornice culturale e strategica di riferimento. Si prenda l’accordo sulla rappresentanza: non è stato applicato da nessuna delle parti perché non c’è la volontà reale di mettere ordine nella confusione che regna sovrana, tanto da parte dei sindacati dei lavoratori quanto dalle associazioni datoriali. Basti pensare ai circa mille contratti nazionali firmati anche da organizzazioni dei lavoratori con poche centinaia di iscritti, ma con una forte capacità di interdizione. In generale, i vertici sindacali sembrano rassegnati, poco propensi a ridiscutere un mondo che sopravvive senza regole. Lo stesso vale per le imprese.

Si definisce sempre “strategico” quello che l’azienda in crisi produce, ma la verità è che per il Paese, l’unico fattore davvero strategico è il lavoro: lo ha detto lei tempo fa.

Molte crisi si sarebbero potute risolvere se vi fosse stata la capacità e l’intelligenza di capire che non era più possibile mantenere determinate produzioni nel nostro Paese. È quella che chiamo “la mossa del cavallo”: fare un passo laterale per riuscire ad avanzare. Per esempio, sarebbe folle mantenere certe produzioni (penso all’alluminio) che si fabbricano in impianti più grandi e innovativi dei nostri e in territori che ottimizzano l’utilizzo delle risorse di base. Quando arriva una crisi con queste caratteristiche, la prima cosa che sento dire è che quella tal produzione “è strategica per il nostro Paese”.

Non è vero?

Per niente: assecondare questi comportamenti costa molto al territorio interessato e costa anche allo Stato che deve sborsare molto denaro per pagare la cassa integrazione e sostenere progetti spesso fasulli di mantenimento del “prodotto strategico”. Se le operaie della Omsa avessero voluto continuare a produrre calze, oggi non avrebbero lavoro mentre sono occupate in Poltrone&Sofà, nella stessa città, in numero molto superiore a quello della loro azienda di origine.

Spesso dunque si sono profuse energie sproporzionate per “salvare” posti di lavoro in aziende senza prospettive ma con grande copertura mediatica. È d’accordo?

Certamente è così. Ma per uscire da questa logica negativa, occorre attrezzare le istituzioni di competenze adeguate, da un lato, e costruire il più rapidamente possibile una nuova cultura tra gli imprenditori ed i lavoratori, dall’altro. È giunto il momento di cessare ogni forma di sperpero, compreso quello di migliaia di capannoni vuoti, abbandonati e spesso ancora idonei ad essere riutilizzati.

Nel suo ultimo libro Pietro Ichino ipotizza uno scenario in cui il mercato del lavoro sia anche il luogo in cui i lavoratori scelgono le imprese con cui lavorare. Che ne pensa?

Impossibile non essere d’accordo. Quella di Ichino è una suggestione molto stimolante. Già oggi, chi detiene un potere di competenze specifiche e generali, ha la possibilità di scegliere l’impresa dove operare e, soprattutto, di abbandonarla quando non gli va più bene. Nella nostra legislazione si cominciano a intravedere i segnali di una tale cultura, ma il cammino è ancora lungo. Soprattutto è lontano il cambiamento diffuso di mentalità: siamo ancora il Paese che ha un tasso di disoccupati giovani altissimo e posti di lavoro disponibili (non solo camerieri, ma anche specialisti cyber) non coperti, oltre a soffrire, a Sud, di un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa. Un buon decisore politico è quello che sa coniugare le due esigenze: quella espressa da Ichino e quella avanzata da un mercato del lavoro disastroso.

Con la fine del blocco dei licenziamenti e un’impasse sanitaria che continua ad avere pesanti risvolti economici che futuro ha il lavoro?

Nel secondo trimestre 2021, l’Istat ci consegna un quadro di ripresa anche del lavoro a tempo indeterminato. Ma gli stessi dati ci dicono che i problemi pre-Covid restano: disoccupazione giovanile, tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa, Sud che fatica a crescere. Non si intravedono politiche in grado di invertire la tendenza e, nel frattempo, aumentano i casi di crisi aziendale che evidentemente non possono essere affrontati con nuove dosi di Cig. Quanto alle nuove misure per fronteggiare le conseguenze delle cessazioni di attività, finora si è visto poco, tranne qualche spunto presente nella legge di Bilancio, ora in discussione in Parlamento. Spero che si faccia qualcosa in fretta, altrimenti i casi Gkn, Whirlpool, Ideal Standard, Evoca ex Saeco, Giannetti Ruote saranno ricordati solo per le migliaia di lavoratori licenziati.

Vuole dire che la causa delle crisi non è lo sblocco dei licenziamenti?

Certo che no. Queste crisi aziendali quasi sempre hanno origini più lontane del Covid. Oggi, certamente, si concentrano più situazioni critiche rispetto al passato. Servono strumenti nuovi: reindustrializzazione, politiche di ricollocamento e agevolazioni a chi fa investimenti per recuperare quelle attività.

Ilaria Donatio

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata