Retorica e furbizie. In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale,

Se il presidente non fosse espressione di una scelta condivisa potrebbe cadere il governo. Ma chi l'ha detto?

30 Novembre 2021 – Augusto Minzolini ilgiornale.it lettura2’

In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale, c'è un concetto che specie a sinistra viene utilizzato quando fa comodo: il presidente della Repubblica deve essere espressione di una vasta maggioranza, deve essere un nome condiviso. Naturalmente sarebbe auspicabile che si verificasse una condizione del genere, ci mancherebbe altro. Un capo dello Stato che fosse eletto da almeno tre quarti del Parlamento sarebbe un segnale di unità per il Paese. Solo che poche volte è successo nella storia patria: su 13 presidenti appena 5 hanno avuto più del 70% dei voti dei grandi elettori. Altri sono andati poco sopra il 50% (Antonio Segni, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano). Poi com'è giusto, ed è qui il vero messaggio che una classe dirigente dovrebbe offrire alla nazione, il capo dello Stato votato da una parte del Parlamento o da un ampio schieramento, è diventato comunque il presidente di tutti. Senza pregiudizi o condizioni.

Ecco perché l'ultima ingegnosa trovata di un Pd senza candidati è nei fatti più strumentale di quanto appaia. Specie se condita da un corollario che rasenta il ridicolo: se il presidente non fosse espressione di una scelta condivisa potrebbe cadere il governo. Ma chi l'ha detto? Quale Pico della Mirandola della politica si è inventato un teorema del genere, indimostrabile quanto campato in aria? Semmai l'unica ipotesi che potrebbe mettere in discussione l'equilibrio emergenziale di oggi è proprio quella di un Mario Draghi che salisse al Quirinale. A quel punto bisognerebbe rimettere in piedi un governo nei primi mesi dell'anno elettorale. Impresa improba se non impossibile: Matteo Salvini, per fare un nome, un attimo dopo uscirebbe dalla maggioranza spiegando che - venuto meno un premier di prestigio e autorevole come Draghi - non sussisterebbero più le condizioni per proseguire in questa esperienza.

Ma a parte ciò, quello che più colpisce sul piano del costume è il comportamento della sinistra: il nome condiviso Pd e alleati lo predicano solo quando sono in difficoltà.

Nel 2006 il vertice del centrosinistra non ci pensò due volte ad imporre Napolitano, eletto con una manciata di voti in più di quelli che portarono sul Colle Leone (il presidente meno votato). Ma anche Mattarella nel 2015 è arrivato al Quirinale sull'onda di uno scontro tra la sinistra e il centrodestra che portò alla rottura del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Motivo per cui se anche in questo caso il presidente fosse eletto a maggioranza non ci sarebbe da far drammi. Sarebbe poi suo compito dimostrare che è il garante di tutti. A meno che agitando la tesi preventiva del presidente «condiviso», il Pd o l'intera sinistra non accampino una sorta di potere di veto su qualcuno, arrogandosi il diritto di giudicare chi è presentabile e chi no. Questo sì che in democrazia sarebbe inaccettabile. Per tutti.

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