Promemoria. L’apoteosi dei populisti ci ricorda una dura legge della politica: se ti unisci a loro, non li batterai mai

Il tragico replay del 2018 che abbiamo davanti agli occhi è la conseguenza di un cedimento culturale della sinistra riformista, che nel corso della legislatura appena trascorsa ha rinnegato decenni di battaglie pur di allearsi con i grillini, senza nemmeno riuscirci

Francesco Cundari 24.9.2022 linkiesta.it lett4'

Qualche giorno fa, guidando nel traffico di Roma, mi è capitato di superare due autobus incolonnati nell’altra corsia e far caso alle pubblicità elettorali sul retro. La prima era un manifesto di Matteo Salvini e diceva: «Iva zero su pane, pasta, riso, frutta e verdura». La seconda era un manifesto di Nicola Zingaretti e diceva: «Prima le persone».

Ne ho tratto alcune non incoraggianti considerazioni sull’esito delle elezioni.

La prima è che evidentemente non basta passare anni ad allearsi con i populisti, trattare con i populisti, elogiare i populisti, per imparare il mestiere dei populisti.

La seconda conclusione è che il fatto di non poterli battere – non sempre, almeno – non è una buona ragione per unirsi a loro, perché in questo modo non li batterai mai. La ragione del tragico replay del 2018 che stiamo vivendo – che abbiamo già rivissuto in questa grottesca campagna elettorale – sta tutta qui.

La scelta di impedire la corsa di Salvini al voto anticipato nel 2019 costruendo una maggioranza alternativa fondata sull’asse Pd-Movimento 5 stelle può essere legittimamente criticata, come ha sempre fatto Carlo Calenda, ma nelle condizioni date era – o forse dovrei dire sarebbe stata – il male minore. Nulla però obbligava il Partito democratico ad accettare persino l’assurda condizione di confermare a Palazzo Chigi lo stesso presidente del Consiglio, pretendendo di fargli guidare due governi di segno politico opposto, uno dopo l’altro: qui sta l’origine di tutte le contraddizioni e le assurdità della legislatura appena conclusa.

Per quanto autorevoli fossero le spinte in tale direzione, il Partito democratico avrebbe potuto e dovuto tenere il punto. D’altra parte, è pur vero che all’apertura della crisi Zingaretti aveva esordito dichiarandosi nettamente contrario alla proposta di formare un nuovo governo, prima ancora di dirsi contrario alla conferma di Conte quale presidente del Consiglio.

Singolare simmetria della sua breve stagione da segretario del Partito democratico, cominciata ponendo come condizione irrinunciabile per la partecipazione all’esecutivo che non fosse Conte il presidente del Consiglio e finita ponendo come condizione irrinunciabile, per la partecipazione al governo successivo, che fosse proprio Conte a presiederlo, come fece scrivere pure su quelle indimenticabili card-manifesto: «Il Partito democratico ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un governo di cambiamento. Quello di Giuseppe Conte». Come è noto, riuscì a perdere entrambe le partite.

L’argomento secondo cui, una volta deciso di formare un governo insieme, la scelta di costruire con i cinquestelle una coalizione politico-elettorale a tutti gli effetti, addirittura un nuovo centrosinistra guidato proprio da Conte, sarebbe stata una conseguenza inevitabile e un atto di coerenza, non solo non sta in piedi di per sé, ma si scontra con tutti i precedenti e anche con l’esperienza successiva.

Secondo quel modo di ragionare, il Pd avrebbe dovuto presentarsi alle elezioni con Forza Italia ai tempi del governo Monti e avrebbe dovuto fare lo stesso anche con la Lega durante il governo Draghi. Com’è ovvio, in entrambi i casi, a nessuno è nemmeno venuto in mente di proporlo.

L’argomento zingarettiano secondo cui «non si può governare da avversari», e quindi se si governa insieme tocca pure presentarsi insieme a tutte le successive elezioni, è stato usato solo per i cinquestelle e giustamente trascurato in ogni altra occasione, semplicemente perché non è un argomento, ma un paralogismo.

Basta riflettere sul fatto che all’indomani di un governo di unità nazionale, seguendo quel criterio, ci ritroveremmo di fatto in una sorta di regime a partito unico, visto che tutti i partiti dovrebbero presentarsi uniti.

Dunque si poteva benissimo formare un governo con i cinquestelle per scongiurare la spallata salviniana, senza per questo cedere su tutto il resto, dalla conferma di Conte alla conferma della loro scriteriata riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari.

Di sicuro non c’era nessun bisogno di proclamare proprio Conte, l’uomo che fino a due mesi prima si voleva giustamente allontanare da Palazzo Chigi, niente di meno che il punto di riferimento di tutti i progressisti. Tanto meno c’era bisogno di legittimare, accettare o addirittura sposare tutte le scelte più demagogiche e regressive dei grillini, rinnegando decenni di storia e di battaglie per affermare in Italia la cultura di una sinistra riformista e di governo.

La caduta di Conte e le contestuali dimissioni di Zingaretti da segretario del Partito democratico all’inizio del 2021 sono stati probabilmente l’ultima occasione per correggere la rotta. A occhi ingenui, il profilo e la storia di Enrico Letta avrebbero dovuto suggerire un certo ottimismo, e infatti nella mia ingenuità io per primo accolsi con un certo sollievo il suo primo discorso da segretario.

Inutile ora fare degli psicologismi sulle ragioni per cui, dal giorno dopo, decise invece di muoversi nella direzione diametralmente opposta – opposta, ripeto, anche rispetto a tutta la sua storia politica, che non era certo quella di un esponente della sinistra radicale e populista – confermando punto per punto la linea zingarettiana dell’alleanza a tutti i costi con i cinquestelle, salvo doverla abbandonare proprio al momento del voto, per manifesta incompatibilità.

Con un’unica differenza, in verità, rispetto alla linea di Zingaretti, ma in peggio: con la scelta di schierarsi da subito contro il proporzionale, per la gioia di Giorgia Meloni, con cui Letta stabilì un incredibile asse per il maggioritario.

Il fatto poi che lo stesso Letta abbia passato le ultime settimane di campagna elettorale paventando il rischio che la destra sia nelle condizioni di imprimere al sistema una deriva illiberale di tipo ungherese, che è esattamente il motivo per cui da tre anni su queste pagine facciamo campagna per il proporzionale, l’unico punto del programma grillino che non hanno voluto realizzare, è la degna conclusione di questa incredibile storia. Perché questa è l’unica certezza che abbiamo: qualunque cosa venga dopo, una storia si è definitivamente conclusa, e non certo in un fulgor di gloria.

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