La crisi del Pd e una scelta non più rinviabile: con 30 anni di ritardo può far nascere un polo riformista

Per molti aspetti un risultato paradossale: il successo del centrodestra è tutto affidato all’exploit di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia perché se fosse stato specialmente per Salvini ma anche per Forza Italia la performance dello schieramento sarebbe stata disastrosa.

Fabrizio Cicchitto — 28.9. 2022 ilriformista.it lettura6’

Salvini ha perso in tutte le zone d’Italia e si è trovato di fronte alla rivolta del Nord industriale che si è sentito tradito per la crisi del governo Draghi. Forza Italia ha tenuto a stento ma continua ad arretrare di elezione in elezione. Quindi l’exploit del centrodestra è tutto dipeso dal ruolo trainante svolto dalla Meloni e da Fratelli d’Italia.

Considerando il loro punto di partenza storico (Msi) la vittoria della Meloni e di Fratelli d’Italia presenta indubbiamente una serie di interrogativi inquietanti ed è giustificata la netta opposizione preannunciata sia dal Pd sia dal Terzo polo. Poi, indipendentemente dalle vicende politiche più immediate, una riflessione più profonda andrà fatta sulle ragioni che hanno portato al successo del partito postfascista, adesso però conviene esaminare le alternative politiche più immediate che si presentano. Infatti Giorgia Meloni – se come probabile avrà dal presidente della Repubblica l’incarico – si trova di fronte a una scelta di fondo. La prima, più semplice, consiste nell’accogliere l’appello che le ha rivolto Marine Le Pen di svolgere in Italia e in Europa un ruolo populista e sovranista.

Ciò avrebbe la conseguenza di uno scontro politico frontale radicalizzato anche dal fatto che il centrodestra ha la maggioranza in Parlamento ma non ce l’ha nel Paese. La seconda scelta, partendo proprio da questo fondamentale rapporto di forza, sarebbe quella di svolgere un ruolo di centro nello stesso centrodestra assumendo una linea di assoluto equilibro a livello interno e internazionale: a spingere in questa direzione sono molti elementi: in primo luogo l’esistenza di una guerra nel cuore dell’Europa, in secondo luogo il mix micidiale tra inflazione e recessione che caratterizza il quadro economico europeo, terzo che l’Europa sta riversando sull’Italia – diversamente dal 2008/2011 – enormi risorse che vanno gestite vincendo tutte le resistenze offerte dalla burocrazia e dalla amministrazione.

Il prossimo futuro ci dirà quale sarà la scelta della Meloni avendo la consapevolezza che Salvini per parte sua giocherà un ruolo estremista e provocatorio sia per recuperare l’enorme terreno perduto sia anche per dare una sponda agli amici che ha in Russia. L’altro aspetto fondamentale di questa elezione è costituito dalla secca sconfitta del Pd che non è occasionale ed episodica ma che a nostro avviso è una sorta di sconfitta storica. Ci auguriamo che il tutto non si risolva in uno scontro congressuale fatto tra correnti attrezzate sul piano organizzativo ma prive di uno spessore politico e culturale. Ci auguriamo invece che proprio questa sconfitta così pericolosa costringa il Pd a fare una riflessione che non riguardi solo gli indubbi errori commessi nella crisi di governo e nella impostazione della campagna elettorale.

Ma che invece riguardi globalmente quello che è accaduto da molti anni a questa parte. A nostro avviso, alla radice di questo disastro, iniziato nei primi anni Novanta, proseguito nella cosiddetta Seconda repubblica ed accentuato ai giorni nostri c’è il fatto che negli anni immediatamente successivi al crollo dell’Urss e al cambio di nome del Pci non fu raccolta la proposta avanzata dai miglioristi dalla sinistra del Psi di costruire da tutto ciò un grande partito socialdemocratico e riformista. L’antisocialismo viscerale dei ragazzi di Berlinguer (Occhetto, D’Alema, Veltroni) portò il Pds a inserirsi nella operazione anti partitica e anti politica lanciata dai poteri forti che finito il pericolo comunista vollero liberarsi del peso eccessivo della Dc e del Psi e lo fecero d’intesa con un nucleo di magistrati assai agguerriti (il pool di Milano) mettendo a disposizione i principali giornali.

Il Pds si inserì nella operazione giocando la carta della distruzione del Psi per sostituirsi ad esso nella gestione del potere di governo. Così il Pds prima, il Pd poi è diventato un partito neoliberista e ultragiustizialista perdendo progressivamente il contatto con la classe operaia e con i ceti popolari e per di più, avendo contribuito alla eliminazione del Psi, non ha più avuto un alleato valido e serio tant’è che ha dovuto fare carte false (compreso il taglio dei parlamentari senza la riforma della legge elettorale) pur di realizzare la convergenza con i grillini portata a termine, dopo tutti gli sforzi di Bersani, nel Conte 2. Questo, descritto in modo necessariamente assai schematico, è il retroterra strategico dell’attuale disastro politico ed elettorale del Pd, frutto anche di una serie di errori tattici commessi in questo periodo.

Infatti non abbiamo mai capito il senso della scissione di Di Maio dal M5s di Conte quando essa non è stata fatta valere per evitare la crisi del governo Draghi. Quando Conte ha cominciato a “dare i numeri” e poi quando ha tolto la fiducia al governo e si è dimesso pur avendo ancora una maggioranza in Parlamento che non è stata fatta valere. Già in quella fase tutto il gruppo dirigente del Pd ha dimostrato di non aver capito nulla delle intenzioni reali di Conte sul quale comunque non è riuscito ad esercitare alcuna influenza. Infatti a quel punto Conte, nel suo straordinario trasformismo, aveva deciso per un verso di tornare alle origini di un partito populista giustizialista e anti Pd, per altro verso anche grazie al blocco di Grillo sui due mandati il M5s è diventato di fatto anche il partito personale di Conte, così personale da avere anche risvolti filoputiniani derivanti anche dal suo passato di presidente del Consiglio.

A quel punto, come e stato detto, il Pd aveva davanti a sé due strade: mobilitare contro il “pericolo fascista” rappresentato dalla Meloni praticamente quasi tutti gli altri partiti – da Conte ai centristi a Fratoianni e Bonelli – oppure costruire un polo rigorosamente riformista con Calenda, Renzi, Bonino, Articolo 1 con il quale condurre una serrata contestazione al centrodestra. Invece è stata seguita una linea così contraddittoria da essere quasi demenziale, prima sì a Calenda e no a Renzi, poi apertura a Fratoianni e Bonelli. In quel contesto l’unico errore di Calenda è stato quello di prendersi due giorni per riflettere rispetto ad una scelta catastrofica che gli avrebbe tolto metà o quasi del risultato elettorale perché si sarebbe dovuto collocare in una coalizione fra riformisti, massimalisti, antiputinisti, neutralisti e filo putinisti, Insomma una sorta di mucchio selvaggio.

È così avvenuto qualcosa la cui gravità non è stata subito colta: mentre il centrodestra malgrado tutte le sue interne contraddizioni si presentava con una proposta di governo e un programma comune, la coalizione di risulta messa insieme dal Pd non aveva un programma comune (ce ne erano due, uno di Letta e uno di Fratoianni) e non si proponeva come una ipotesi di governo: a pochi giorni dalle elezioni il segretario dem ha tenuto a sottolineare che non avrebbe mai fatto un governo con Fratoianni e Bonelli. Dopo questa sconfitta quindi il PD è di fronte a una scelta di fondo: può impegnarsi – sia pure con l’handicap di farlo con un ritardo di circa 30 anni – alla costruzione di un polo riformista, europeista, collocato nell’Occidente, costruendo una intesa con Azione, Italia Viva e altre forze politiche e culturali di stampo riformista esistenti nella società italiana, oppure può imbarcarsi nell’ipotesi che potremmo appellare della via italiana a Mélenchon ricercando, come certamente suggeriscono Bettini ed Emiliano, i moderni Marx ed Engels, l’intesa con l’ultima versione di Conte (una sorta di Fregoli nella vita politica italiana) e del M5s, in sostanza dando vita ad una sorta di alleanza fondata sul populismo di sinistra ultra assistenzialista e ultra giustizialista, cioè il peggio del peggio.

Diversamente da Salvini che ha fatto una conferenza stampa per dire che attraverso il potere che acquisirà nel prossimo governo sta già preparando la rivincita per le prossime elezioni Enrico Letta, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha detto che ormai la parola nel Pd è affidata ad un congresso nel quale non si ricandiderà come segretario. Un congresso che può essere l’estrema occasione per il rilancio di una forza riformista oppure per la fuga verso un massimalismo inconcludente destinato a concludere la storia assai contraddittoria del Partito Democratico.

Fabrizio Cicchitto

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