Porte aperte. Il fantasma di D’Alema tormenta ancora il Pd (e sembra andar bene a tutti)

A poco più di un mese dal congresso, Schlein e Bonaccini parlano di «porte aperte» per l’ex presidente del Consiglio: sarebbe un definitivo spostamento a sinistra e una pietra tombale sulla vocazione maggioritaria

19.1.2023 mario Lavia linkiesta.it lettura2’

Uno spettro si aggira per il congresso del Partito democratico, lo spettro di Massimo D’Alema. Quasi anagrammando il nome, come Amelia la strega che ammalia, il personaggio di Walt Disney, D’Alema continua dopo anni dalla sua uscita a suscitare odî e amori, e comunque interesse misto a qualche patema. «Porte aperte», dicono all’unisono Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, i duellanti congressuali. «Non ho idea se voglia rientrare», ha detto un altro candidato, Gianni Cuperlo, un alfiere dal dalemismo dei tempi d’oro.

Ma no, molto probabilmente D’Alema non tornerà. La politica continuerà a farla a modo suo, dietro le quinte, se gli servirà, perché com’è noto adesso fa ben altro, consulenze, transazioni, affari, Colombia, Albania, Qatar. Ma in fondo sono fatti suoi.

È invece questione che riguarda tutti questa storia delle porte aperte: perché a D’Alema sì e a Matteo Renzi e Carlo Calenda no? La domanda è chiaramente retorica, non fosse altro perché né Calenda né Renzi pensano minimamente a rientrare nel Partito democratico, dato che la loro strategia è sostituire il Partito democratico, non prenderselo.

Ma guardiamola dal punto di vista di Bonaccini e Schlein (e anche Enrico Letta e Dario Franceschini): imbarcare dalemiani e bersaniani, perché alla fine questo è il modesto risultato di una “costitituente” che non è mai partita, significa spostare il baricentro del partito a sinistra, e non ci vuole un raffinato politologo per capirlo. Con bella espressione si dice che bisogna ricostruire una comunità.

Riformisti, cattolici democratici, liberali soffrono e nessuno se ne preoccupa, per loro le porte non sono né aperte né chiuse, semplicemente non esistono. In questa situazione, forse senza nemmeno volerlo, Elly Schlein finisce per essere la guida di questo ritorno a casa – proprio lei che con quella “casa” non c’entra niente – per costituire il vettore di questo spostamento: lo hanno capito Andrea Orlando, Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti, tre dei massimi responsabili del declino attuale del Partito democratico, che immaginano che con Schlein segretaria si riprenderebbe, aggiornandola, la fisionomia e la collocazione politica del Pds riverniciata di verde e di diritti civili.

La cosa incredibile è che nel Partito democratico non ci sia stato nessuno che di fronte alle «porte aperte» a D’Alema si sia alzato per dire che le ultime vicende che hanno riguardato quest’ultimo dovrebbero essere più che sufficienti a scartare l’ipotesi di un suo coinvolgimento nel “nuovo Pd”, e che in generale le sue indicazioni degli ultimi anni sono tra i motivi non secondari dell’attuale crisi del partito – dall’abbraccio a Giuseppe Conte alla riscoperta della ripulsa del “capitalismo” mediante la sinuosa espressione della critica all’«ordoliberismo», una tattica e una strategia fallimentari.

Quel po’ che resta dei riformisti dem avrebbero dovuto dire a Schlein ma soprattutto al loro candidato Bonaccini: «Scusate ma che c’entra D’Alema?». Forse Paola De Micheli potrebbe dire qualcosa. Torna qui una domanda che Linkiesta aveva già posto: ma se nemmeno su Massimo D’Alema c’è differenza di opinioni, si può sapere su cosa si andrà a votare il 26 febbraio alle primarie? Sulle «porte aperte»? Che poi è il titolo di uno dei grandi romanzi di Leonardo Sciascia: «Le porte aperte. Suprema metafora dell’ordine, della sicurezza, della fiducia. “Si dorme con le porte aperte”. Ma era, nel sonno, il sogno delle porte aperte: cui corrispondevano nella realtà quotidiana, da svegli, e specialmente per chi amava star sveglio, tante porte chiuse». Già sentiamo la risposta: non facciamo un congresso su D’Alema. E invece lo state facendo. Senza dirlo, però

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