Vuoto sociale. La piddite della Cgil e l’inesorabile scomparsa dei sindacati

Gli iscritti delle tre sigle sindacali calano, i gruppi dirigenti perpetuano loro stessi e gli scioperi non fanno più notizia

Mario Lavia 20.1.2023 linkiesta.it lettura4’

Nell’indimenticabile La classe operaia va in paradiso, a un certo punto Gianmaria Volonté si reca in un manicomio chiedendo a tutti: «Hai visto il “Militina?». Il “Militina” (Salvo Randone) era un ex operaio, «in fabbrica sei ancora un mito», espertissimo di diritti sindacali, di buste paga, di scioperi, simbolo di quegli operai che erano punto di riferimento per gli altri operai, per tutto, dalle questioni pratiche alle analisi politiche. Oggi Volonté avrebbe ragione a chiedere: «Hai visto il sindacato?».

La questione è per certi versi storica: davanti a un governo per la prima volta davvero di destra, le organizzazioni tradizionali dei lavoratori sono, o appaiono, ferme. Ogni tanto c’è un incontro a Palazzo Chigi (anche ieri, sulle pensioni: nulla di nuovo), il trionfo della ritualità persino negli aspetti esteriori, l’insoddisfazione di Maurizio Landini, imitato da Pierpaolo Bombardieri, l’attesismo di Luigi Sbarra.

Ieri la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone si sarebbe rivolta ai presenti annunciando di voler pianificare un percorso di lungo periodo, ipotizzando una riforma delle pensioni che dovrebbe seguire determinati step, così da arrivare a un risultato finale entro la fine della legislatura: campa cavallo!

Dopodiché in questo vuoto sociale irrompono sulla scena altri soggetti, duri, determinati, estranei alla normale dialettica sindacale: ecco i benzinai che faranno sciopero il 25 e il 26 bloccando il Paese, o quasi.

Di questo si parla in Italia, non certo delle proteste regionali che Cgil e Uil avevano organizzato a dicembre che, come ha scritto Dario Di Vico sul Foglio, «non sono rimaste scolpite nella storia», mentre il precedente sciopero della scuola era andato malissimo.

C’era stata ancora prima una manifestazione a piazza Santi Apostoli contro la legge di Bilancio cui avevano partecipato soprattutto i dirigenti nazionali e romani della triplice: è come se anche la Cgil fosse colpita dalla piddite, il male oscuro che rende inutile, perché senz’anima e senza popolo, ogni mossa del Pd.

Gli iscritti calano e non si parla più della certificazione della rappresentanza, nonostante un accordo dell’ormai lontano 2014, ogni tanto i tre sindacati alludono a un non meglio identificato patto sociale nel quale però non ci mettono niente, a differenza dei tempi di Bruno Trentin.

I gruppi dirigenti perpetuano sé stessi e chi va in pensione punta a entrare in Parlamento, come Susanna Camusso (visibile in Aula solo per le “incertezze” sull’Ucraina) e Annamaria Furlan (non pervenuta) mentre – va sottolineato – resistono tanti dirigenti locali e quadri sui posti di lavoro che fanno seriamente e con qualche frustrazione il loro mestiere di sindacalisti veri. Ma il problema comincia a essere di sistema. Se crolla la colonna della rappresentatività sociale e politica dei sindacati, se dalla protesta collettiva, consapevole e nazionale si passa alla jacquerie egoista e alla frammentazione dell’interesse generale allora sono guai per la tenuta del Paese.

La società italiana si va frantumando ogni giorno di più all’inseguimento di un “particulare” interesse di categoria, di quartiere, di città, di regione contro altre categorie, altri quartieri, altre città, altre regioni e naturalmente la destra dà pacche sulle spalle di tutti, finché può, dopo magari userà le armi dell’ordine e della disciplina. E vediamo in questo quadro avanzare altre proteste: benzinai, forse tassisti, auotrasportatori, titolari di concessioni balneari.

Categorie toste, naturalmente collocabili nell’universo di una destra “sociale” e corporativa, slegate dal contesto generale della lotta sindacale di massa ma a questo punto non per responsabilità loro ma perché una lotta sindacale di massa, semplicemente, non c’è.

Meloni pensa di essere furba. Ieri si è visto il governo abbassare chiaramente la portata delle misure contro i benzinai: viene stabilito che l’obbligo di comunicazione sarà settimanale (e non più giornaliero) prevedendo a ogni variazione del prezzo un significativo alleggerimento delle sanzioni proprio nella direzione indicata dai gestori più altre misure che hanno alleggerito il contenzioso anche se non sino al punto di indurre i benzinai a revocare lo sciopero: da tutto questo di scorge la debolezza negoziale del governo che vede per la prima volta lo spettro della piazza animata peraltro da un “suo” segmento di consenso.

E per questo è paradossale che Cgil Cisl e Uil non riescano a muovere una foglia dinanzi all’aumento dei prezzi, al ristagno dell’economia, all’inerzia sulle politiche per i giovani e per il lavoro, allo zero assoluto su scuola e università. Manca un disegno generale del sindacato, quell’ispirazione unitaria e nazionale che furono alimento dei grandi momenti dell’emancipazione dei lavoratori, manca un progetto, mancano i grandi sindacalisti – perché alla fine è lì che si torna – capaci di combattere il populismo e l’egoismo sociale in nome di un presente migliore.

Il segnale che viene avanti dunque è il peggiore possibile: ognuno faccia da sé e vinca chi strilla più forte. L’Italietta delle corporazioni e del non governo è servita, e nessuno dice niente.

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