Stipendi diversi tra nord e sud? Sulla carta uguali ma nei fatti sono già differenti

La grande ipocrisia italiana: è inutile nascondersi dietro all’illusione di salari uguali sulla carta. Le differenze sono notevoli, a favore del sud

LORENZO BORGA 30 GEN 2023 ilfoglio.it lettura4’

La grande ipocrisia italiana: è inutile nascondersi dietro all’illusione di salari uguali sulla carta. Ciò che conta è quanto si può acquistare con quel denaro nel luogo dove si vive. Le differenze sono notevoli, a favore del sud

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La proposta del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha risvegliato un dibattito sopito ma mai spento nel nostro paese: gli stipendi devono essere uguali da nord a sud? Le critiche sono sempre le stesse: “A Milano il costo della vita è maggiore che a Napoli, ma a Milano lavorano tutti mentre nel sud se lavora uno della famiglia è già un miracolo” (Vincenzo De Luca), “Il nostro Paese è già abbastanza diviso, non ha bisogno di aumentare le divisioni” (Maurizio Landini), “E’ una proposta pericolosa perché può aprire una spirale di provocazioni che rischiano di dividere il paese” (Mara Carfagna). Tanti sono stati gli attacchi che il ministro ha alla fine fatto marcia indietro, affermando di non aver mai parlato di “compensi diversi fra nord e sud”.

Ma la grande ipocrisia italiana è che oggi i compensi sono già differenti fra settentrione e meridione. È inutile nascondersi dietro all’illusione monetaria di salari sulla carta uguali. Ciò che conta è quanto si può acquistare con quel denaro nel luogo dove si vive e lavora. E qui le differenze sono notevoli, e a favore del sud. Una ricerca dell’economista Andrea Garnero del 2018 ha riscontrato che “i minimi salariali dei contratti collettivi nazionali sono piuttosto alti rispetto al salario mediano, in particolare nel sud Italia” (nonostante al sud, nota Garnero, più spesso che in altre regioni i minimi contrattuali non vengano rispettati). Dal Molise fino alla Sicilia infatti i minimi salariali, corretti per il costo della vita, risultano di circa un euro all’ora più alti che nelle regioni del nord.

Restando nell’ambito scolastico, il primo stipendio di un insegnante di scuola elementare sarà solo poco più di una volta e mezzo più alto della soglia di povertà calcolata dall’Istat in una grande città metropolitana del nord, mentre in città meridionali della stessa dimensione lo stesso salario sarà ben più del doppio del limite sotto al quale si è considerati poveri. Ciò significa che lo stipendio al nord – benché uguale in termini nominali – vale un quarto in meno rispetto che in città come Napoli, Bari e Reggio Calabria. Per non parlare della differenza che si raggiunge confrontando metropoli come Milano e Torino con i comuni medio-piccoli del meridione: il 32 per cento. Significa che in busta paga gli insegnanti del nord dovrebbero ricevere oltre 450 euro netti in più al mese per garantirsi lo stesso tenore di vita di un collega, allo stesso livello, che insegna al sud. E le differenze permangono anche se usciamo dalle grandi città settentrionali: nei comuni fino a 50 mila abitanti del nord Italia il costo della vita appare comunque più alto del 17 per cento rispetto alle grandi città del sud e del 25 a confronto dei piccoli centri. A proposito di “rischio di spaccature” del paese.

Pagare salari legati al costo della vita non avrebbe però vantaggi solo per le città del nord. I contratti collettivi nazionali “accrescono le disuguaglianze di reddito generando allocazioni inefficienti, in particolare creando più disoccupazione nelle aree a bassa produttività”. Le parole sono dei professori Andrea Ichino, Enrico Moretti, Johanna Posch e Tito Boeri, che in una ricerca del 2019 hanno dimostrato che il sud avrebbe da guadagnarci da salari più legati alla produttività. Gli economisti mettono a confronto Germania – dove le imprese possono negoziare a livello locale con i sindacati, derogando dagli accordi nazionali – e Italia, in cui invece i contratti nazionali determinano la stragrande maggioranza degli stipendi dei lavoratori dipendenti. Entrambi i paesi sono però accomunati da notevoli differenze interne di costo della vita e produttività: i tedeschi tra est e ovest, gli italiani tra nord e sud. Il problema sta nel fatto che nel sud Italia i salari sarebbero troppo elevati rispetto alla produttività del territorio, che dipende dagli investimenti, dalle istituzioni e dal capitale umano e sociale di un territorio. Questo crea disoccupazione, perché le imprese faticano a rimanere sul mercato ed espandersi, se vogliono pagare in modo legale i propri dipendenti (ed ecco perché al sud è più diffuso il lavoro in nero). Secondo Boeri, Ichino, Posch e Moretti, se l’Italia seguisse l’esempio tedesco, i salari medi al sud scenderebbero di 53 centesimi all’ora, ma l’occupazione potrebbe salire di quasi 13 punti percentuali. Con un effetto netto positivo sul bilancio delle famiglie. E, a proposito di spaccature del paese, il “divario nord-sud nel reddito pro capite si ridurrebbe dal 28 per cento all’11”.

Le scelte da compiere dovrebbero dunque essere avvicinare l’Italia a modelli di contrattazione dei salari a livello più locale, senza intaccare in modo eccessivo il potere contrattuale dei lavoratori attraverso l’introduzione di un salario minimo. Datori di lavoro e sindacati potrebbero negoziare in modo più mirato le modalità di lavoro, con effetti positivi anche sulla produttività. E se dalla boutade di Valditara arrivasse davvero una svolta decisiva per l’economia del nostro paese?

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