Migranti e operai, la guerra fra ultimi e penultimi al tempo delle deportazioni

Gli ultimi arrivati diventano i primi solo nella fila per la busta paga, e non c’è alcuna sovversione della gerarchia sociale

Adriano Sofri 12 apr 2025 ilfoglio.it lettura4’

La questione non è se la classe operaia esista o no, bensì se si comporti come se esistesse. Per alcuni anni gli operai l'hanno fatto, per poi tornare a essere solo operai e operai soli. Forse non c'era niente da fare, o forse moltissimo

Francesco disadorno che fa un giretto con gli accompagnatori in maniche di camicia mette allegria. C’è un momento per i reali del Regno Unito e uno per un ragazzino americano e le tombe dei predecessori. Nella filastrocca patriottica di Renato Simoni, musicata da E. A. Mario, Pio X, il beniamino di Francesco, che morì neanche un mese dopo lo scoppio della Grande Guerra, scende dal cielo al suo Piave: “Son Papa Sarto da un pezzo son morto /… La me perdona, Signora, se vegno / a presentarme cussì a la Madona… / Anca sta sera go fato un zireto, / me son stracà che l’età non perdona. / Go dito: andémo a sentarse un pocheto / e a far do ciacole co la Madona!”.

Di universalismo cristiano insidiato scriveva ieri Sergio Belardinelli, che è un fervido credente. Gli eredi dell’idea che non possiamo non dirci cristiani – non essendo, cioè, credenti – guardano con apprensione alla penuria di cristiani credenti, per non dire praticanti.

L’aveva scritto, Croce, nel 1942, “in questa terribile guerra mondiale”. Il cristianesimo dei non credenti non può ridursi al simulacro o alla memoria, ha bisogno di fedeli, come l’edera ha bisogno di un sostegno sul quale arrampicarsi. Senza, il cristiano morale si arrampica sugli specchi. Gli eredi del cristianesimo disincarnato leggono le statistiche e sentono franarsi il terreno sotto i piedi, come i giovani che leggono le statistiche sulla natalità e la longevità e la serrata ai migranti, e sentono mancarsi la pensione. Che la scomparsa dei cristiani che dicono le preghiere lasci il posto a una morale cristiana universale è un’utopia. Vengono, plebiscitati, cristiani bisunti, la santa Russia, la grande America, paradisi di trilioni e all’inferno le pensioni.

Tanti anni fa, più di venticinque ormai, quando mi fu chiaro che “il problema dell’immigrazione” (e non le persone migranti, con le quali convivevo, dunque sapevo che erano e sono altra cosa) avrebbe rotto gli argini tramutando la lotta di classe in una guerriglia fra gli ultimi e i penultimi, mi reinterrogai sull’espressione: Beati gli ultimi. Ci sono tornato in un confronto postumo bresciano fra LC e CL, e ci torno qui. Copio, ma da me. L’espressione si ricorda completata, “Beati gli ultimi perché saranno i primi”, e si immagina che sia una delle Beatitudini. Non lo è, non sta nel Discorso della Montagna. Vi figurano altrettanti annunci di un manifesto di rivoluzione sociale, promesse di riscatto e avvisi di castigo – beati i poveri e guai a voi, i ricchi; beati quelli che hanno fame, e guai a voi che ora siete sazi; beati quelli che ora piangono, e guai a voi che ora ridete… Ma quella dei primi e degli ultimi non c’è. C’è nel Vangelo di Marco, con l’avviso secco: “Ora molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi”, echeggiato in Matteo e Luca. L’assimilazione alle Beatitudini priva l’espressione del suo sorprendente contesto, che è quello di una questione di principio sorta su una vertenza sindacale. Succede nella parabola del padrone della vigna. Il quale si alza presto per assumere gli operai, si accorda con loro per un denaro al giorno, e loro vanno al lavoro. Più tardi, all’ora terza, trova in giro altri operai sfaccendati e assume anche loro: “Andate anche voi nella vigna, vi darò quello che è giusto”. E fa la stessa cosa all’ora sesta e alla nona. All’undicesima ora c’è ancora nella piazza qualche operaio in ozio. “Nessuno ci ha presi a giornata”, gli dicono, e lui manda anche loro alla vigna. Scesa la sera, dà ordine al fattore di pagare gli operai, “cominciando dagli ultimi fino ai primi”. Quelli dell’undicesima ora ricevono un denaro a testa. E così gli altri, fino ai primi, che ricevono tutti il loro denaro pattuito. Ma a questo punto i primi se la prendono col padrone: “Questi qui, gli ultimi, hanno lavorato soltanto un’ora, e tu li hai fatti pari a noi che abbiamo sopportato la fatica della giornata e la calura”. Il padrone replica: “Io non vi faccio torto. Non eravamo d’accordo per un denaro? Prendete dunque quello che vi spetta e andatevene. Io voglio dare a questi ultimi come a voi. Forse che non posso disporre come voglio del mio denaro? Oppure il tuo occhio è maligno perché io sono buono? Così gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi”.

C’è da restare sconcertati. Il comportamento del datore di lavoro è così stravagante da far sospettare che più che un uomo buono sia un padrone capriccioso. Di fatto l’egualitarismo estremista che esibisce contraddice tutti i discorsi sul merito e sugli incentivi, e ricorda, commemora, il vilipeso Sessantotto del rifiuto di qualifiche e categorie e degli aumenti uguali per tutti. Certe parabole andrebbero prima di tutto prese alla lettera, così questa: gli ascoltatori contemporanei dovevano sapere bene quanto si faticasse in una vigna e quanto valesse il salario di una giornata. Dunque i primi e ultimi, qui, non sono i ricchi e i poveri, i sazi e gli affamati, ma operai gli uni e gli altri, differenti solo per il caso che li ha portati a gironzolare nella piazza del caporalato a ore diverse. Sono primi e ultimi solo in ordine di tempo, sono i primi e gli ultimi arrivati.

In questa specie di comunismo dall’alto (dall’altissimo, del Regno dei cieli e del suo Signore) a tutti viene dato secondo i loro bisogni.

Gli ultimi arrivati diventano i primi solo nella fila per la busta paga, e non c’è alcuna sovversione della gerarchia sociale. Dai nostri giorni, la parabola inscena il malumore degli operai che hanno lavorato tutto il giorno contro gli operai che hanno lavorato di meno, e alcuni addirittura solo per un’ora. Il padrone non ha mancato all’accordo sindacale, per così dire, ma ha tradito ai loro occhi la giustizia comparativa.

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