Escalation. Quel retrogusto anni Trenta nel linguaggio della politica

Da Vance a Netanyahu, le dichiarazioni ufficiali segnalano un minaccioso ampliamento del campo del dicibile

Francesco Cundari 20.5. 2025 linkiesta.it lettura2’

, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

Associated Press / LaPresse Only italy and Spain

A rischio di passare per ingenuo, oggi vorrei lasciare in secondo piano tante sofisticate analisi politico-diplomatiche di cui sono pieni i giornali, con tutti i relativi retroscena, ipotesi, deduzioni e controdeduzioni, per concentrarmi sul linguaggio delle dichiarazioni ufficiali. Anche perché, per quanto riguarda il merito delle due questioni politico-diplomatiche al centro dell’attenzione, la guerra in Ucraina e l’occupazione di Gaza, mi sembra che nella sostanza si torni sempre al punto di partenza. Ho invece la sensazione che il linguaggio delle dichiarazioni ufficiali segnali uno slittamento, direi pure un ampliamento del campo del dicibile (e dunque del possibile), che stiamo forse sottovalutando.

Benjamin Netanyahu, per esempio, ha giustificato ieri in un video la necessità di ricominciare a lasciar passare un minimo di aiuti umanitari per Gaza con queste testuali parole: «Non dobbiamo lasciare che la popolazione sprofondi nella carestia, sia per ragioni pratiche che diplomatiche»

Nel frattempo, il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, spiegava così la posizione del governo americano nei confronti di Vladimir Putin: «La proposta degli Stati Uniti è sempre stata: guarda, ci sono molti vantaggi economici nel disgelo tra la Russia e il resto del mondo. Ma non otterrai questi benefici se continui a uccidere un sacco di innocenti».

Il mio timore è che, al di là dei giudizi legati alle posizioni di ciascuno sulla questione mediorientale o ucraina, una sorta di progressiva assuefazione al male ci stia facendo perdere di vista quello che è in primo in piano, e che a me pare l’essenziale. Può darsi che mi sbagli, che dimentichi o sottovaluti i mille precedenti di cui è certamente ricca anche la storia recente, ma non riesco a respingere l’impressione di una pericolosa spirale, anzitutto nel dibattito pubblico, che mi ricorda sempre di più gli anni trenta del secolo scorso. Capisco che di fronte ai bombardamenti e alle migliaia di morti discutere delle parole possa sembrare futile, e sono consapevole dei problemi interni alla coalizione di governo israeliana, del ricatto degli estremisti e della particolare posizione personale di Netanyahu.

Ma non mi pare che tutto questo possa bastare per considerare normale il fatto che un primo ministro spieghi pubblicamente la decisione di lasciar passare degli aiuti umanitari con il fatto che le immagini della gente che muore di fame risultano impopolari tra gli alleati, e dunque indeboliscono la posizione del suo paese, quasi a scusarsene. O che il vicepresidente degli Stati Uniti descriva in quei termini, davanti alle telecamere, l’offerta di una stabile e reciprocamente vantaggiosa collaborazione economica con la Russia, se solo i governanti di quel paese volessero smettere un momento di uccidere innocenti. Non sto dicendo ovviamente che fino a ieri al governo vi fossero persone più buone di oggi (ipotesi che peraltro non escluderei, ma non rileva), quello che mi impressiona è che tutto questo sia già divenuto normale, che appaia normale anche a noi.

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