SPILLO GIUSTIZIA/ Il referendum delle toghe nelle piazze di Landini

La macchina del No alla separazione delle carriere si è messa in moto in vista del referendum prossimo venturo

Stefano Bressani 1.11.2025 ilsussidiario.net lettura5’

La macchina del No alla separazione delle carriere si è messa in moto in vista del referendum prossimo venturo. Attenzione al ruolo di Landini

Che la magistratura voglia giocare la partita referendaria in arrivo sulla riforma arruolando le piazze antagoniste-a-tutto incendiate da Maurizio Landini lo si è inteso per tempo, fin degli ultimi referendum voluti (e persi) dal leader della Cgil.

 

Il presidente della Corte costituzionale Giovanni Amoroso – un magistrato ordinario espresso dalla Corte di Cassazione – era subito corso in aiuto di Landini: nei fatti lamentando che solo il vincolo del quorum d’affluenza avesse impedito a meno del 30% degli italiani di abolire definitivamente il Jobs Act e concedere tout court la cittadinanza agli immigrati irregolari.

Amoroso non aveva esitato a sconfinare dal suo ruolo istituzionale su un terreno squisitamente politico, suggerendo al Parlamento una riforma del referendum con l’abolizione del quorum, affiancando la campagna “Bastaquorum” subito imbastita dai perdenti-referendum.

Il fine di medio termine diventa evidente oggi: quando è in vista un referendum confermativo per il quale il quorum non è previsto e nel quale il “partito di Landini” può quindi giocare con altro peso.

È vero che il movimento di piazza si è andato cementando sulle proteste pro-Pal (a rischio di antisemitismo nelle contestazioni alla senatrice a vita Liliana Segre), ed è sospettato di pura funzionalità alle ambizioni politiche personali di un sindacalista a fine carriera.

Ma il “partito di Landini” – a lato e in sovrapposizione di un Pd ondeggiante – è senza ombra di dubbio l’unico parco-voti cui possono guardare nell’immediato i magistrati in trincea. L’ultra-democrazia antagonista – che non prende le distanze dalla violenza dei black bloc ed esalta una figura come quella di Ilaria Salis – è chiaramente il campo sul quale il terzo potere dello Stato ritiene di poter contrastare meglio il primo e il secondo; intenzionati a chiarire, questi ultimi, che dentro l’ordine costituzionale italiano i magistrati hanno pieno diritto all’indipendenza dalla politica ma non quello di agire come un potere separato nella democrazia parlamentare.

In una caccia preventiva all’ultimo voto, non ha stupito neppure che l’Associazione nazionale magistrati (Anm) abbia subito offerto tribuna e applausi a Sigfrido Ranucci, il campione del giornalismo antagonista appena sanzionato dal Garante per la Privacy per aver mandato in onda sul servizio pubblico televisivo una telefonata privata intercettata a un ministro del governo di destra-centro (un mese fa un altro Garante ha dichiarato fuori legge uno sciopero generale selvaggio indetto dalla Cgil).

Se intanto le prime indagini sull’attentato subito da Ranucci sembrano puntare sulla criminalità albanese, lo stesso giornalista non ha fatto nulla per smentire la responsabilità di un “clima d’odio” ossessivamente contestato da anni agli attuali partiti di governo.

È del resto lo stile ormai affermatosi nei cortei di Landini. Il leader della Cgil è ormai il gestore di un supermarket politico ambulante in cui di sabato in sabato nelle piazze italiane viene offerta la merce più disparata: la protesta contro Israele (o contro Trump) e il rilancio dei venerdì ambientalisti “gretini”, se necessario contestando la Ue (ma a sabati alterni); la pretesa di una maxi-patrimoniale in Italia e la richiesta di aumenti retributivi o di difesa dei livelli pensionistici (ma non in via prioritaria). I girotondi di Landini cominceranno ora ad innalzare anche striscioni “No alla riforma anti-Pm”?

Sul piano della pura dinamica competitiva elettorale, la ricerca palese dei voti di Landini da parte di toghe e affini non fa una grinza. Nessuno dimentica come un presidente del Senato come Pietro Grasso abbia traslocato a Palazzo Madama direttamente dalla Procura di Palermo grazie a una candidatura Pd, poi resa più politicamente connotata dal passaggio alla sinistra estrema di Liberi e Uguali.

Ma anche il tentativo fallito di Rivoluzione Civile animato dall’ex Pm Antonino Ingroia si mosse all’insegna del ruolo dei magistrati come “correttori degli errori della democrazia”.

È fra i banchi di M5s alla Camera che siede attualmente l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Lo stesso magistrato-simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, abbandonò la toga per ritrovarsi subito ministro del governo Prodi 1: primo atto di “resistenza” al centrodestra durante la Seconda Repubblica.

Nel frattempo la maggioranza di centrodestra ha dovuto attendere mesi e mesi per insediare un giudice di propria espressione (parlamentare) in una Consulta che sembra talora presentare i tratti di un bunker in condominio fra il Quirinale (che designa 5 giudici su 15) e l’ordine giudiziario (che ne indica altri 5).

Si è avuta intanto notizia che il neo-costituito “Comitato per il No” ha indicato come presidente Enrico Grosso.

È un professore (stimato) di diritto costituzionale all’Università di Torino, figlio di Carlo Federico Grosso, altrettanto stimato penalista torinese con più di un’importante esperienza politica: da vicesindaco di Torino eletto come indipendente nelle liste del Pci fino a vicepresidente “laico” del Csm nel biennio successivo alla vittoria elettorale dell’Ulivo, con Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale.

La caratura culturale e civile non può essere messa minimamente in discussione né per Grosso padre (scomparso nel 2019) né ora per il figlio, chiamato a essere il principale portavoce del No alla riforma della giustizia.

Però una domanda più sostanziale sembra lecita: perché nel ruolo emerge una figura che sembra difficile non definire “d’apparato”?

Apparato giudiziario e apparato partitico: lontano dalla democrazia parlamentare e dalla società civile, che invece dovrebbero alimentare la dialettica pubblica sulla riforma.

Può sembrare normale che il no a una riforma votata dal Parlamento veda in prima fila i magistrati militanti dell’opposizione e i loro simpatizzanti. Non lo è affatto: e colpisce che gli stessi magistrati insistano su un’autodifesa palesemente corporativa e politicizzata. Mentre d’altra parte puntano a “comperare” in blocco il serbatoio dei voti di Landini, contando di poter rientrare in quel “tutto tranne Meloni” che è il collante delle piazze antagoniste.

La risposta del leader Cgil e delle sue piazze è tuttavia ancora in gran parte da verificare. Può tuttavia darsi che la carica inerziale dell’antagonismo si estenda effettivamente a supporto di 6.500 magistrati nazionali, da sempre dipinti come veri “cani da guardia” di una democrazia a sua volta sempre dipinta come minacciata dalle “destre neofasciste” (che pure si affermano in elezioni democratiche per definizione aperte e contendibili).

La scommessa immediata dei magistrati è in ogni caso chiara su un ampio fronte politico-istituzionale, in teoria soggetto alla vigilanza ultima del Capo della Stato.

L’obiettivo è frenare o addirittura paralizzare il governo del Paese con mesi di campagna elettorale.

È un caso minore – ma non minimo – rispetto a quello “macro” incarnato del presidente francese Emmanuel Macron, che sta paralizzando il suo Paese (che ormai crede in lui solo all’11%) e la Ue in una fase storica cruciale unicamente per la pretesa personale di occupare l’Eliseo fino all’ultimo giorno di mandato.

Ma anche altrove vanno prendendo forma tentativi di “resistere-resistere-resistere”, essenzialmente all’America di Donald Trump: puntando su un “ribaltone” al Congresso di Washington dopo le elezioni midterm in calendario fra un anno.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata