Il re(ferendum) è nudo. Nell’Italia del volemose bene, la commedia politica è diventata tragicamente seria
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non è più un dibattito di merito, ma un duello identitario dove la destra finge di innovare e la sinistra difende il passato
Mario Lavia 4-11-2025 linkiessta.it lettura3’
Il voto referendario sulla magistratura non è più un dibattito di merito, ma un duello identitario dove la destra finge di innovare e la sinistra difende il passato
«Questo nostro è un tempo in cui il confronto delle idee è diventato difficile, se non impossibile. La polarizzazione, in larga parte alimentata dai social network, ma sostenuta da tutte le forze politiche che apparentemente pensano di avvantaggiarsene, fa sì che il confronto politico e intellettuale tra posizioni diverse sia ormai merce rara, e per lo più stigmatizzato come negativo perché non ci si deve mescolare: è questo un sintomo di grande debolezza del pensiero». Rubiamo queste parole di Anna Paola Concia da un recente libro collettaneo su “Quel che resta del femminismo” (Liberilibri), perché si adattano perfettamente alla situazione politica italiana e non solo italiana.
Lasciamo stare gli Stati Uniti o la Francia, Paesi non a caso perennemente spaccati in due (la storica contrapposizione tra reazione e rivoluzione è nata lì), perché piuttosto colpisce che da noi, l’Italia del volemose bene, la frattura tra i due poli, o chiamateli come volete, sia ormai diventata un fatto antropologico oltre che politico.
In una stagione che va sempre più assomigliando a quella del primo berlusconismo, nella quale si stava con Silvio o contro Silvio, ecco che piomba il più lacerante degli appuntamenti: il referendum, per sua natura momento divisivo, semplificatorio, allusivo di conseguenze non chiare. Si vota una cosa, ma se ne pensa un’altra. Comunque vada, sarà uno scontro all’ultimo sangue.
Dimenticate il fair play. O noi o loro, ma chi siamo noi e chi siamo loro non è limpidissimo. Dimodoché il famoso merito della questione è destinato a lasciare il posto a valutazioni politiche, o politiciste, sulle conseguenze del voto, in un potenzialmente cervellotico interrogarsi sul «cui prodest» e l’inevitabile rovello sul che fare: stare al merito o votare contro il governo, o in suo favore? Non è stato possibile, per evidenti responsabilità di Giorgia Meloni (ma solo sue?), arrivare a una riforma bipartisan come probabilmente il Quirinale avrebbe desiderato, il che la dice lunga sull’effettivo potere «dissuasivo» del Colle in questa fase.
Comunque sia, dentro questo garbuglio la vicenda tende a farsi commedia dell’arte grazie al contemporaneo travestimento dei personaggi, proprio come in Goldoni, con la sinistra che diventa conservatrice dello status quo e la destra che impersona il cambiamento. Ma così il povero cittadino, abituato allo scenario opposto, nel quale la sinistra innova e la destra conserva, non capisce più nulla, e come al solito la contraddizione più vistosa pesa sulle spalle della sinistra: la magistratura deve cambiare, ma votate per fare restare tutto com’è, dice l’opposizione. Che naturalmente, a guardarci dentro, ha le sue ottime ragioni, ma un pochino più complesse da spiegare rispetto al semplice messaggio del governo, per il quale bisogna dare un colpo a come funziona la magistratura e quindi cambiare il sistema attuale.
C’è da chiedersi se questa asimmetria di partenza, tra un messaggio complesso e uno semplificato, sia sufficiente a far pendere la bilancia a favore della separazione delle carriere: i primi sondaggi indicherebbero di sì. Se le cose stanno in questo modo, conviene al campo largo forzare il discorso, facendo del referendum l’occasione di una spallata al governo? È questo l’interrogativo che aleggia al Nazareno, il luogo dove, volenti o nolenti, si scaricherà il peso di una vittoria o di una sconfitta – cosa volete che importi a Nicola Fratoianni e allo stesso Giuseppe Conte – perché difficilmente, se vince il Sì, Elly Schlein potrà fischiettare, avendo perso il secondo referendum su due (e se il Jobs Act non contava niente, stavolta c’è Giorgia Meloni in campo, così che alla fine si tratta di un big match).
E a proposito di Meloni, lei se perde, se ne deve andare oppure no? Gli ideologi di Palazzo Chigi si affannano a spiegare che non considerano la sorte dell’esecutivo legata all’esito del referendum sui magistrati. Ma, in fondo, chi se ne importa di quello che considerano loro. È abbastanza oggettivo che, trattandosi di una riforma del governo, se essa cade per volontà del popolo qualcosa dovrà pur succedere, e non è che il Quirinale, che giustamente sta fuori dalla contesa, a quel punto potrà far finta di niente.
Bene che vada, in caso di sconfitta, Meloni potrà inventare qualcosa per restare abbarbicata a Palazzo Chigi, ma chiaramente ferita da un voto popolare contrario, puntando a tirare a campare, diciamo, fino all’autunno del 2026, in un clima in cui un Matteo Salvini, sempre più nervoso, potrà chiederle se valeva la pena di imbarcarsi in un’avventura simile. Se viceversa gli italiani diranno sì alla riforma di Carlo Nordio, per la premier potrebbe essere un’ottima occasione per anticipare le elezioni politiche sulle ali della vittoria referendaria (e dopo un buon pareggio, tre a tre, alle regionali).
In ogni caso, dunque, il referendum è destinato a essere il grande bivio della legislatura, per fissare definitivamente quale strada imbocchi l’Italia, se cioè il melonismo è il suo destino oppure no: un’Italia che forse non aveva bisogno di essere ancora una volta frastornata dalle baruffe politiche dei suoi personaggi goldoniani.


