Fiducia va cercando Ipotesi sullo scollamento

 (molto italiano) tra ripresa reale e “clima positivo” per cittadini e imprese

di Marco Valerio Lo Prete | 30 Marzo 2015 ore 20:07

Roma. La fiducia registrata tra cittadini e imprese cresce, ergo la ripresa dell’economia si avvicina e immediatamente dopo arriva. A grandi linee funziona così, almeno sulla carta. Comprensibile dunque che anche lunedì il governo si sia subito felicitato per i nuovi dati comunicati dall’Istat: il clima di fiducia dei consumatori italiani a marzo è arrivato a 110,9 (in aumento dal 107,7 di febbraio e considerato il riferimento di 100 nel 2010), quello delle imprese a 103 da 97,5 di febbraio. “Il fatto che la fiducia di imprese e cittadini tenda a stabilizzarsi è un fatto positivo”, ha detto il ministro del Lavoro Poletti, aggiungendo: “Anche se noi sappiamo che le cose in coda a una crisi tendono a non essere stabilizzate, dunque è ragionevolmente immaginabile che possa capitare che abbiamo un mese di euforia e magari un mese di caduta”. Cautela giustificata almeno da due fatti. Il primo: gli indicatori soft, come i sondaggi sulla fiducia, nel nostro paese volgono quasi tutti al meglio da dicembre, ma gli hard data ancora non seguono. A gennaio la produzione industriale è calata; poi salirà, certo, ma con un aumento dello 0,1-0,2 per cento del pil nel primo trimestre serviranno aumenti di quasi mezzo punto negli altri trimestri per avvicinarsi a fine anno al più 0,7 atteso dal governo per il 2015. Secondo motivo di cautela: l’Italia non è nuova a picchi positivi di fiducia, non seguiti poi da episodi di ripresa. Andò così nel 2014.

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Su ciò che rende più labile del previsto il legame (pur intuitivo) tra fiducia percepita e ripresa effettiva, gli studiosi s’interrogano da tempo. Con particolare attenzione al caso italiano. La Banca d’Italia nelle scorse settimane ha pubblicato uno studio ad hoc, intitolato “Tra il dire e il fare: il divario tra giudizi degli imprenditori e andamenti dell’industria”, curato dagli economisti Antonio Conti e Concetta Rondinelli. Il dilemma si pone per il fatto che “tra la metà del 2013 e l’estate del 2014 gli indicatori qualitativi comunemente impiegati a fini di analisi della congiuntura economica avevano fornito segnali coerenti con un progressivo rafforzamento della ripresa ciclica”, mentre “nello stesso periodo gli indicatori quantitativi avevano invece continuato a mostrare una persistente debolezza”. Una prima ipotesi è che la crisi, facendo piazza pulita delle imprese più inefficienti, abbia mutato il campione degli imprenditori intervistati; se a rispondere restano solo quelli più fit, il futuro apparirà più roseo; gli studiosi della Banca d’Italia però, analizzando il campione utilizzato per le indagini da Palazzo Koch, scartano quest’opzione. Prevale una seconda ipotesi: l’effetto dirompente della forte recessione ha spinto gli imprenditori ad abituarsi a un “new normal”, cioè a “rivedere al ribasso i livelli di attività di medio periodo”, fino al punto di esprimere valutazioni positive “anche in una fase di persistente debolezza dell’attività economica”. Soltanto col tempo le due grandezze si riallineeranno.

La fiducia delle famiglie solleva ulteriori quesiti. Uno studio dell’Ocse del 1996, per esempio, rivelava come già allora in Italia il nesso tra fiducia dei consumatori e ripresa della produzione industriale fosse statisticamente nullo (a differenza che in altri paesi). Più recentemente Thomas Manfredi, economista dell’organizzazione internazionale con sede a Parigi, ha scritto su Linkiesta che “in Italia l’indicatore specifico sul clima economico delle famiglie consumatrici sembra avere un particolare potere predittivo ex ante nei confronti della serie statistica trimestrale del pil. Interessante però notare come nel recente passato, almeno fino a metà degli anni 2000 l’indicatore fosse lagging, cioè seguisse invece di anticipare, la dinamica dell’economia”. Secondo tale approccio, il problema sarebbe perlopiù di natura empirica; risiederebbe cioè di volta in volta nella formazione del campione considerato.

Un’ultima ipotesi l’ha formulata in queste ore il centro studi Nomisma, sottolineando che la fiducia delle famiglie in relazione all’evoluzione dell’economia è in “netto miglioramento”, mentre le valutazioni delle stesse persone sulla “condizione personale” vedono un miglioramento molto meno marcato. Perché gli italiani sono più ottimisti sull’andamento del sistema-paese che su quello personale? Possibile che siano influenzati dal dibattito mediatico, da settimane incentrato sui fattori esterni che possono trascinare la ripresa: politiche espansive della Bce, euro debole e petrolio a buon mercato. Ma che, prima di diventare più fiduciosi sul bilancio familiare, preferiscano attendere riforme radicali, sgravi fiscali e rilancio sensibile dell’occupazione.

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