Perché il futuro di Renzi dipende solo dal Senato. Mappa di una guerriglia

Quattro conta Civati, quindici Bersani, otto i fittiani, anche Alfano fa conto per sè. Giachetti: “In arrivo il botto”

di Salvatore Merlo | 06 Maggio 2015 ore 06:15 Foglio

Roma. Adesso che Pippo Civati se ne va dal Pd, e forse si porta via qualcuno, a Palazzo Chigi guardano il Senato con rotolìo d’occhi, come se gli si parasse davanti non una superba facciata rinascimentale, ma un’orrenda deformazione del futuro: un marasma compulsivo e regressivo, fatto di bivacchi e di rabbia in Aula, di stanchezza e di poca gloria, d’estenuanti trattative, di geometrie non euclidee, di senatori a vita convocati con le stampelle (come accadde nel 2008 al governo Prodi), di leggi che passano, sì, forse, ma col ritmo di una coda al casello sotto il sole d’agosto. E insomma di fronte agli occhi di Matteo Renzi in queste ore si compone, con parvenza d’incubo, il mosaico monocromo del Vietnam parlamentare.

In Senato la maggioranza si tiene in piedi per una decina di voti, a volte molti meno, a seconda delle assenze. E giovedì scorso, per dire, la delega al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, è passata per un solo voto di scarto. E quel singolo voto, così decisivo e prezioso, è arrivato da un puntino remoto dell’emiciclo, lì da dove non te lo aspetti, cioè dalla senatrice Manuela Repetti, compagna di Sandro Bondi, lei che qualche settimana fa era fuggita da Forza Italia per approdare (con Sandro) al Gruppo misto, che è un po’ come il bar di Guerre Stellari, ci trovi infatti dentro di tutto: Cinque stelle, Sel, e altri strambi acronimi che suonano all’incirca così: Gap, Ilc, Fal, MovX…

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 La sola eventualità che il Senato si trasformi in uno zoo, ovvero, per estensione, in ciò che in sociologia si definisce “entità caotica ingovernabile”, impensierisce Renzi ma sta mettendo, e comprensibilmente, un certo citrato nel sangue della minoranza del Pd. “Da oggi Renzi ci può considerare ventidue senatori da convincere”, ha fatto sapere lo spumeggiante Corradino Mineo, lui che, assieme ai colleghi Ricchiuti e Tocci, è forse il più tentato dal seguire Civati fuori dal partito. Il fatto è che alla maggioranza basterebbe perdere anche due o tre voti per entrare in affanno, e se ne perdesse sei (i soli uomini di Bersani sono quindici) non sarebbe più nemmeno maggioranza. Così tutti fanno di conto, e tutti si organizzano, e tutti bussano al Gruppo misto (al bar di Guerre Stellari), come fosse la cambusa dei voti: toc toc. Ci vanno Luigi Zanda e Andrea Marcucci per conto di Renzi, e ci va Denis Verdini, che potrebbe raccogliere un nuovo gruppo parlamentare per sostenere il governo (ma chissà), nel giorno in cui Roberto Giachetti spiega quello che tutti ormai hanno capito: “Dopo le elezioni regionali ci sarà un bel botto nei gruppi parlamentari”.

E dunque il Senato è immerso in un’insolita bruma dove tutto è più o meno nitido, sì, ma inconoscibile o irriconoscibile. Civati si atteggia a Titano ribelle, mezzo Prometeo e mezzo Anticristo, “vado avanti e alla fine saremo tantissimi”, dice. E poiché la Camera non conta, perché è al Senato che si balla coi numeri, il partito di Nichi Vendola già gli spalanca le porte: “Dobbiamo pensare a una grande forza”, ha proposto Nicola Fratoianni, una grande forza elettorale di sinistra (per il futuro), con Civati, ma intanto una più modesta eppure determinante forza parlamentare: Sel ha sette senatori, per fare un gruppo ne bastano dieci, e Civati, come si diceva, è amico di quei tre senatori che mancano, cioè Mineo, Ricchiuti e Tocci. Inoltre, da tempo, ha pure avvicinato Francesco Campanella, un tempo grillino di Sicilia.

E insomma il pericolo, a detrimento di tutto il resto, sta forse per diventare la dimensione elettiva di Renzi. D’altra parte la sinistra del Pd è ben rappresentata in Senato. Se Gianni Cuperlo non ha nemmeno un amico senatore, e se la cosiddetta area riformista di Roberto Speranza ne conta in realtà solo uno, cioè Luciano Pizzetti (che però è sottosegretario dunque non proprio un dissidente), Pier Luigi Bersani è invece guida riconosciuta d’una cospicua e solida tribù di almeno quindici persone, tra cui i più noti sono Maurizio Migliavacca, Miguel Gotor, Paolo Corsini e Massimo Mucchetti. E ha dunque di che preoccuparsi, il presidente del Consiglio, mentre i capannelli di Palazzo – e l’osservazione delle alleanze alle regionali – descrivono anche nuove e non governative manovre di Angelino Alfano, che sta lavorando, com’è evidente, a un patto federativo con Raffaele Fitto e Flavio Tosi. E Fitto, non precisamente renziano, e prossimo com’è a lasciare Forza Italia, ha circa otto senatori, quasi un gruppo parlamentare, ha cioè tutti i pugliesi eletti nel partito di Berlusconi a esclusione dei senatori Amoroso e Iurlaro.

Nella remotissima eventualità che Alfano lasci la maggioranza per abbracciare Fitto,  o che Ncd si spacchi, cosa più probabile, Renzi che farebbe? E può, il premier, affrontare alla cieca la riforma del Senato, con almeno venti dei suoi parlamentari che fanno le bizze a Palazzo Madama? Inseguire un nemico fantasma, ascoltare lontani rumori d’inafferrabili battaglie minacciate, non ha valore sinistro in sé, ma non è gran vita. E anche raccogliere una maggioranza variabile, incerta, per Renzi significherebbe vivere nella prefigurazione minuziosa non del domani e dunque delle riforme, bensì dei quindici o trenta minuti che lo attenderebbero in Senato di voto in voto, di tagliola in tagliola. Dunque ci sono le mosse di Verdini, che parla con i senatori di Alfano scontenti (quelli che non lo seguirebbero fuori dalla maggioranza), che ha un certo numero di amici sicuri (i famosi “tre riccardi” del Senato: Riccardo Mazzoni, Riccardo Conti e Riccardo Villari), che da tempo chiacchiera col potente Vicenzo D’Anna, e che nel gruppo di Gal, ascari mezzi berlusconiani, oltre a D’Anna ha parecchi altri interlocutori, almeno sei, senza contare la coppia Repetti-Bondi. Quasi un gruppo parlamentare. Trattati come numeri dal loro partito, uniformati da seriali sms di convocazione, ci sono poi i tanti, troppi, senatori di Forza Italia che per ragioni forse più personali che politiche, fanno sapere d’essere sul mercato, disponibili all’ascolto di Renzi, di Fitto, di Verdini. Di chi capita, insomma. Ed ecco così il “botto”, di cui parlava Giachetti. Ma dopo le regionali. Manca poco. E Boom.

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