Evviva la mutazione genetica del Pd

La trasformazione c’è. Il dna è cambiato. Il Pd, su, non è quello del 2007. C’entra Renzi. C’entra soprattutto il fattore grande coalizione. La storia dei 45 fondatori (dove sono finiti…) e quel patrimonio da non dissipare

di Claudio Cerasa | 15 Maggio 2015 ore 06:02 Foglio

Da un certo punto di vista i nemici di Renzi hanno ragione quando dicono che il Pd non è più quello di un tempo, che il modello di Pdn impostato da Renzi è distante anni luce rispetto al progetto maturato otto anni fa in piazza Santi Apostoli a Roma e che osservando la direzione imboccata dal partito renziano si indovina un orizzonte che rispecchia solo fino a un certo punto lo spirito con cui il 23 maggio del 2007 nacque il famoso comitato promotore del Partito democratico. Banalmente, si potrebbe dire che a differenza di otto anni fa il Pd è diventato un partito vincente (troppo facile). Banalmente, si potrebbe dire che a differenza di otto anni fa il Pd riesce ad attrarre nuovi elettori anche perché non è una missione impossibile conquistare elettori che un tempo votavano partiti che oggi sostanzialmente non ci sono più. Si potrebbe dire questo e si potrebbe dire altro ma il vero punto di forza che oggi bisogna riconoscere al Pd renziano è quello di essere riuscito a fare una cosa che a nessun altro segretario democratico era finora riuscita: sfruttare il grande frullatore innescato negli ultimi quattro anni dalle grandi coalizioni che hanno governato l’Italia per de-ideologizzare, facendoli propri, alcuni temi che la sinistra aveva (clap clap) storicamente lasciato ai propri avversari. La natura diversa del Pd renziano rispetto a quello passato è legata a questo punto preciso che in qualche modo giustifica la fuoriuscita dal contenitore democratico di tutti quelli che avevano pensato che il Pd sarebbe dovuto essere solo una specie di listone unico figlio dei tempi dell’Ulivo-Unione. Quel Pd, invece, quel Pd che doveva essere, come chiedeva Prodi, un partito capace di preoccuparsi prima di tutto dell’Unione delle famiglie del centrosinistra, più che della sintesi tra le famiglie. Quel partito che avrebbe dovuto essere un partito di centro-sinistra (democratici e progressisti), come sognava Massimo D’Alema e come sognava Pier Luigi Bersani. Quel Pd semplicemente non esiste più. E una mutazione genetica, tra ieri e oggi, esiste davvero ed è certificata non solo dalla routine quotidiana ma da una piccola storia che ci è utile a fotografare la trasformazione del Pd. E se i simboli hanno un loro peso, l’esperimento migliore per capire se una mutazione c’è è quello di riavvolgere il nastro e andare a vedere che fine hanno fatto le 45 personalità che vennero scelte nel 2007 per comporre il comitato promotore del Pd. Pronti? Via.

In quel comitato promotore c’era Giuliano Amato, la cui vicinanza al Pd è diventata nel tempo inversamente proporzionale alla sua vicinanza al Quirinale. C’era Rosy Bindi, che oggi si riconosce nel Pd più o meno come Piero Pelù nei Litfiba. C’era Sergio Cofferati, che oggi si riconosce così poco nel Pd al punto da aver rifiutato il risultato delle primarie organizzate dal suo partito in Liguria e al punto da aver scelto di sostenere, sempre in Liguria, lo stesso candidato alla regione che ha scelto di seguire Pippo Civati fuori dal Pd (ma non a tal punto da rinunciare al seggio europeo conquistato un anno fa con i voti del Pd). C’era Mario Barbi, prodiano, uscito dal Pd dopo le ultime elezioni. C’erano Marcello De Cecco e Carlin Petrini, che otto anni dopo aver fondato il Pd non hanno ancora preso la tessera del partito (slow inscription). C’erano Lamberto Dini (uscito dal Pd), Marco Follini (uscito dal Pd), Francesco Rutelli (uscito dal Pd), Linda Lanzillotta (uscita dal Pd), Luciana Sbarbati (uscita dal Pd), Vilma Mazzocco (uscita dal Pd), Agazio Loiero (uscito dal Pd), Letizia De Torre (uscita dal Pd). E infine, in quel comitato, c’erano una serie di nomi che si riconoscono in quel che è diventato il Pd più o meno come Vincenzo De Luca si riconosce nelle liste che lo appoggiano in Campania. C’erano Enrico Letta, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Maurizio Migliavacca, Gad Lerner (sì, c’era anche Gad), Giuseppe Fioroni, Rosa Iervolino, Anna Finocchiaro. In quel comitato poi c’era qualcuno che nel Partito della nazione renziano forse si sente persino più rappresentato del Pd veltroniano (Morando, Fassino, Gentiloni, Franceschini, lo stesso Veltroni). Ma otto anni dopo si può comunque dire che un membro su tre del comitato fondatore del Pd non fa più parte del Pd e che un altro membro su tre di quel comitato sta nel Pd che ha fondato facendo molta fatica a sentirsi a casa sua.

Chi è rimasto dei 45 fondatori? Pochi

 

Cat. Italia

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