Lettere al Direttore il Foglio 22.5.2015

Cosa insegna Giovanni Falcone ai nuovi eroi della procura di Palermo

1-Al direttore - Il magistrato Giannicola Sinisi, oggi consigliere di Corte d’Appello a Roma, dal 1991 al 1992, collaborò

con Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Dopo quell’esperienza, tra il 2009 e il 2013, è stato consigliere giuridico presso l’ambasciata italiana a Washington. In questi giorni è uscito un suo libro, con questo titolo: “A sicilian patriot. Giovanni Falcone e gli Stati Uniti d’America”. E’ un volumetto di grande interesse perché il dottor Sinisi ha lavorato sui cablogrammi segreti dell’ambasciata Usa a Roma indirizzati al dipartimento di stato, dal 1987 al 1993, declassificati per iniziativa dello stesso autore, dai quali si evincono alcune vicende rilevanti di cui è protagonista Giovanni Falcone. Non sto qui a riprendere i tanti fatti che possono essere occasione di una recensione del libro. Riferisco un solo episodio, raccontato attraverso uno scritto del diplomatico americano Daniel Serwer, vice capo missione dell’ambasciata americana. Questo funzionario, che oggi lavora al dipartimento di Stato, racconta di una conversazione svoltasi a Palazzo Taverna (sede dell’ambasciata) durante un pranzo a cui partecipavano l’ambasciatore Peter Secchia, Giovanni Falcone e forse il direttore del Fbi, poco prima dell’attentato di Capaci. Serwer domanda a Falcone notizie sul suo lavoro al ministero della Giustizia e gli chiede “se non si sentiva imbarazzato a servire un governo guidato da Giulio Andreotti, che era accusato di essere debole con la mafia”. E’ chiaro che la parola “debole” significa qualcosa di più. Risposta di Falcone: “Ritengo che se Andreotti abbia avuto delle colpe si sia trattato tutt’al più di peccati di omissione, non di commissione” (è significativo quel “tutt’al più” e Falcone aggiungeva che “non era mai stato bloccato nei suoi sforzi al ministero della Ggiustizia e che il ministro Martelli lo stava sostenendo senza riserve”). Una risposta fulminante e perfetta, che sintetizza con due parole le responsabilità politiche di Andreotti e della Dc nei rapporti con la mafia. L’iniziativa giudiziaria della procura palermitana, avviata poco dopo questa “sentenza” di Falcone, si è conclusa com’è noto con una sentenza che corregge l’assoluzione in primo grado e che, a mio avviso, somiglia a una telenovela: nel primo tempo, per i rapporti con la mafia c’è una prescrizione, scegliendo una data precisa che consentisse l’assoluzione nel secondo tempo. Insomma, una telenovela all’italiana.

Emanuele Macaluso

Storia stupenda. Ma mi stupisce fino a un certo punto. Falcone è stato uno dei teorici della necessità, per un magistrato e un giudice, di condannare qualcuno solo in presenza di fatti certi e di prove certe. E a corollario di questa testimonianza che lei ci ha gentilmente offerto ce ne è un’altra che spiega bene qual era il pensiero del dottor Falcone. “Io posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole… o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese”. La frase è del 1991, è un passaggio di un’audizione a Palazzo dei Marescialli avvenuta in seguito alla scelta di Falcone di non aver sviluppato le indagini su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia. Un tempo, alla procura di Palermo, si ragionava così. Un tempo, appunto.

2-Al direttore - La crescita nel primo quarto del 2015 (+0,3 per cento) è per molti superiore alle attese. Parliamo di decimali, è vero, ma quelli del primo trimestre sono sempre molto importanti: se si mette fieno in cascina all’inizio, a meno di una nuova recessione, che nessuno prevede, siamo sulla buona strada. Per quanto riguarda Confcommercio, il dato è coerente con la valutazione della crescita 2015 oltre l’1 per cento, in ragione della pluralità degli impulsi esterni, che è inutile commentare, e di un paio di decimi di punto di effetto Expo sullo stesso pil (tre decimi sui consumi).

Non si tratta di essere ottimisti ma di valutare dentro uno schema ragionevole gli effetti che il direttore Cerasa indicava su questo giornale il 17 maggio. Diverse autorevoli stime effettivamente suggeriscono impatti aggiuntivi sul pil derivanti sia dalle misure della Bce sia dal minore costo del petrolio, tenuto conto dell’effetto del cambio. Dico aggiuntivi: cioè andrebbero sommati alla previsione del pil senza questi effetti, che nell’autunno del 2014 poteva quantificarsi in un mezzo punto di crescita per il 2015. Ora, il professor Nannicini, nella replica del 20 maggio a questo giornale, segnala giustamente il pericolo di sommare effetti presi da fonti differenti e valutati in contesti differenti, e quindi, come a sette e mezzo, di scassare: si dovrebbe cioè prevedere una crescita del pil ben oltre il 2 per cento, a meno di non attribuire all’effetto “governo Renzi” un valore eccezionalmente negativo (per riportarci, appunto attorno all’1 per cento). Effetto che nessun governo, almeno dentro un’economia di mercato, può avere.

Il problema, crudamente sollevato dal direttore Cerasa, riguarda la seconda domanda, quella relativa all’attribuzione del merito di qualsiasi variazione positiva di qualsiasi grandezza, a questo o a quell’altro. Se accettassimo l’idea che la ripresa la fanno i lavoratori e le imprese? E che al massimo il governo, qualsiasi governo, può creare le condizioni per facilitare l’azione di famiglie e imprese? Il governo orienta, non rema. In questa visione diventa più facile valutare l’azione dell’esecutivo. Il Jobs Act non deve creare lavoro, né subito né tra molto tempo e quindi, inutile impazzire due volte al mese per verificare se c’è o non c’è un segnale in questo senso. Deve costituire uno strumento adatto a fare meglio impresa perché, sì, gli agenti rispondono agli incentivi e se questi sono ben congegnati quelli agiranno meglio. Lo stesso dicasi per le riforme costituzionali, di grande importanza, e della riforma fiscale, la cui delega va nella giusta direzione.

Sul piano dei numeri congiunturali l’inversione di tendenza c’è: il reddito disponibile è almeno non decrescente, i consumi sono in moderata ripresa (+0,4 per cento l’indicatore di Confcommercio che comprende anche le vendite al dettaglio dell’Istat), la produzione industriale è in accelerazione tra gennaio e marzo, l’occupazione è sopra la media dei primi tre mesi del 2014 (+0,2 per cento), la capacità utilizzata degli impianti produttivi è in costante aumento da tempo, le immatricolazioni di auto e di veicoli industriali mostrano anche in aprile un significativo incremento. Che il saldo estero abbia fornito un contributo negativo nella prima parte dell’anno non preoccupa. Verosimilmente, le esportazioni sono andate bene – in ulteriore crescita in aprile – ma le importazioni sono andate meglio, sia per consumi sia per materie prime e beni intermedi da utilizzare per la produzione interna. C’è tempo per un ulteriore sviluppo dell’export come anche dovrebbe migliorare il saldo di nati-mortalità delle imprese del terziario di mercato (ancora negativo per circa 30 mila unità nella prima parte dell’anno in corso).

Nei prossimi trimestri il pil si confronterà con i valori particolarmente depressi dei corrispondenti periodi del 2014. Così, anche dal punto di vista statistico, la dinamica anno su anno migliorerà.

Tutto bene? No, ma non per il diffuso richiamo al fatto che questa modesta ripresa non lenisce le ferite di una crisi straordinariamente lunga e profonda. I piani non vanno confusi: stiamo cercando di capire cosa accade oggi e con quale intensità; altro è misurarci con il passato valutando un ritorno a una crescita robusta e duratura. Il problema è diverso e riguarda la confusione e l’incertezza sul nostro prossimo futuro fiscale (e la sentenza della Corte sulle pensioni non aiuta). Bisogna fare chiarezza sui conti pubblici per scongiurare adesso l’innesco delle clausole di salvaguardia del 2016. Non vale farlo la vigilia di Natale perché a quel punto sarebbero già stati persi ingenti quantità di pil e consumi per la paura di nuove tasse. Ciò renderebbe più ardua la stessa tenuta dei conti il prossimo anno.

Mariano Bella, direttore Ufficio Studi Confcommercio

Grazie. Il suo ragionamento, molto puntuale, conferma le nostre convinzioni. L’Italia crescerà per i fatti suoi, quest’anno e il prossimo anno. E se il governo non riuscirà ad assecondare questa crescita, e a creare le condizioni per farla aumentare in modo esponenziale (riduzione delle tasse, taglio della spesa pubblica), non si potrà far finta di nulla. L’Europa, dopo tanti mesi, è un treno che ha riacquistato una sua piccola velocità e chiunque, in Italia e nel resto d’Europa, non riuscirà a stare al passo con i tempi non potrà che essere considerato come un ostacolo alla ripresa del paese. La sfida di Renzi, in fondo, è tutta qui.

3-Al direttore - L’articolo di Antonucci sull’omicidio di Yara Gambirasio mostra efficacemente tutte le storture di un modo di procedere da parte di certa magistratura e dei media in generale. Che il “vero” processo oramai sia stato già fatto è sotto gli occhi di tutti. Il “mostro” è da tempo sbattuto in prima pagina e nei tg, senza ritegno alcuno né verso l’imputato né verso la sua famiglia. Al di là del caso in oggetto,ogni volta che viene avviata un’indagine da qualche procura, chi ne è colpito è praticamente già condannato. Il sottile metodo di persuasione mediatico-giudiziario svolge il proprio lavoro con abilità e, come riportato nell’articolo, ne viene calpestata la nostra dignità di persone.

Pasquale Ciaccio

Ieri la rubrica Alta società è stata pubblicata con un errore di stampa. Non era “la bella vecchietta”, ehm, ma “la bella vecchiezza”. Ci scusiamo con i lettori.

Categoria Italia

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