Il reato di omicidio stradale è un pessimo esempio di populismo penale

Si può osare un ragionamento tanto impopolare quanto inconfutabile, almeno nelle sue premesse?

di Luigi Manconi | 14 Giugno 2015 ore 06:18 Foglio

Si può osare un ragionamento tanto impopolare quanto inconfutabile, almeno nelle sue premesse? Proviamoci. Se i morti per incidente stradale, sono passati, nell’ultimo quarto di secolo, dai 6.621 dell’anno 1990 ai 3.385 del 2013, come è possibile parlare oggi di “emergenza” a proposito di questa indubbia tragedia? E, più in generale, come è possibile che la cosiddetta insicurezza percepita – l’ansia per sé, per i propri cari e i propri beni – sia così totalmente scissa dai dati concreti della criminalità reale? Per esempio, da un dato quale il seguente: nel 1990 gli omicidi volontari sono stati 1.633, mentre nel 2013 ne sono stati commessi 502.

Ora, sappiamo benissimo e da decenni che non sarà la razionalità illuministica e, tantomeno, la contabilità statistica a orientare i moti e i sentimenti dell’animo umano, a sedare le angosce collettive e a determinare gli orientamenti e, ancor prima, gli umori delle comunità. Ma, certo, l’ampiezza dello scarto tra alcuni dati di realtà e le elaborazioni fantasmatiche che covano nella mentalità condivisa, fa impressione. E temo che l’opera degli imprenditori politici della paura, pur così rilevante nel piegare a fini elettorali le emozioni dei soggetti più vulnerabili, non sia il fattore prevalente. E, tuttavia, a questo dobbiamo prestare attenzione, richiamati come siamo dall’attualità politico parlamentare. E’ di appena due giorni fa l’approvazione da parte del Senato di un disegno di legge che introduce l’autonomo reato di omicidio stradale e che prevede un apparato sanzionatorio abnorme.

Ora, nessuno può sottovalutare il dolore che una morte improvvisa, come quella determinata da un incidente stradale, può suscitare in una famiglia o in una più ampia comunità di affetti. E naturalmente chi se ne renda responsabile deve risponderne davanti a un giudice. Ma ciò – come esige uno stato di diritto – nella giusta misura e secondo il fondamentale principio della proporzionalità: tenendo conto, cioè, delle circostanze e del grado di consapevolezza dell’autore del reato (e, quindi, della sua colpevolezza). Per questo motivo, la giurisprudenza ha già articolato una serie di risposte sanzionatorie che vanno dalla minima punizione dell’omicidio colposo a quella massima dell’omicidio volontario. Non più di una settimana fa si è discusso dell’imputazione di omicidio volontario, mossa a carico dell’intero equipaggio di un’auto che ha ucciso una donna e provocato numerosi feriti in un quartiere romano. Un reato che prevede pene non inferiori a 21 anni di carcere. Che bisogno c’è, pertanto, di duplicare questa ipotesi di reato istituendone una autonoma ( l’ “omicidio stradale”, appunto, oltre alle lesioni personali stradali)? E che bisogno c’è di portare la pena a 12 anni (18 in caso di omicidio plurimo o di ulteriori lesioni), ancora aumentabili se il conducente si dà alla fuga? Non sarebbe bastato intervenire, anche pesantemente, sulle misure accessorie, prevedendo – pure per periodi lunghi – la revoca della patente e il divieto di conseguirne una nuova? Non sarebbe stato più utile, non solo in termini di deterrenza ma anche di prevenzione?

Si tratta, in tutta evidenza, di un provvedimento dai forti connotati emotivi, che – per l’ennesima volta – non si pone in alcun modo il problema dell’efficacia bensì solo ed esclusivamente quello della sua capacità di suggestione. Non è certo il primo caso. Anzi. Solo nella legislatura in corso si contano almeno 30 interventi normativi che introducono nuovi reati o elevano i massimi edittali per reati già vigenti (mentre la delega per la depenalizzazione è ancora inattuata). L’elenco delle fattispecie introdotte ex novo o aggravate comprende un vasto repertorio: dall’auto-addestramento al terrorismo all’incendio di rifiuti, dalla coltivazione di sementi vietate alla tratta di persone. Insomma, un campionario che porta il segno di quel populismo penale che percorre la società e larga parte dell’informazione e che, nella gestione politica, assume i tratti di una vera e propria demagogia punitiva.

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