Chi vuole la testa di Renzi. Il premier, l’innovazione, Fassina, i déjà vu e i veri ostacoli per il timoniere

Come in tutti gli schemi precedenti di innovazione radicale è partita la caccia all’uomo

di Giuliano Ferrara | 25 Giugno 2015 ore 19:36

Come in tutti gli schemi precedenti di innovazione radicale è partita la caccia all’uomo. Renzi resta nel breve termine senza alternative credibili, ma che cosa accade al progetto se si arriva al voto con la configurazione di una lista significativa di vecchia sinistra che incorpora un pezzo del Pd in rotta con la linea del segretario-presidente? Perché, se non riprendono seriamente l’economia e la fiducia nel futuro delle riforme dell’italian way of life, l’esperimento Renzi è a forte rischio

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Stefano Fassina se n’è andato dal Pd dicendo che “il Pd si è riposizionato” e  che “Renzi non è un intruso o un usurpatore ma la sua migliore guida” ovvero “l’interprete più abile della subalternità culturale e politica della sinistra italiana, sia di matrice comunista sia cattolica, negli ultimi tre decenni”. Insomma: mutazione genetica o altro, il Pd che Fassina lascia è interprete di una politica, la cui genesi risale a trent’anni fa ed è equamente ripartita fra le tradizioni postcomunista e postdemocristiana, che punta su un’Europa unita, su una gestione più flessibile del debito nella zona euro, su una crescita ottenuta con le riforme come da tabella di marcia della Banca centrale di Francoforte. Lo spazio elettorale e politico che Fassina individua per il nuovo soggetto che vuole costruire è quello occupato in Grecia dalla Syriza di Alexis Tsipras, fuori dai confini classici del Partito socialista europeo e con un piede fuori dall’Europa.

Tutto chiaro e legittimo, la spiegazione è esauriente e persuasiva. Da tempo sostengo che il royal baby è espressione di una novità radicale nel modo di essere della sinistra di governo in Italia, mettendo anche da parte (se volete) le modalità iperberlusconiane della comunicazione, del rapporto diretto con l’elettorato eccetera. Come in tutti gli schemi precedenti di innovazione radicale (Craxi, Berlusconi e per certi versi lo stesso D’Alema, quando non produceva vino) è partita la caccia all’uomo, si sono coalizzate su un’asse destra-sinistra, più una forte corrente antipolitica, le forze che intendono svellere una leadership che ha un progetto riformatore e stabilizzatore del sistema politico. Déjà vu. L’establishment editoriale e finanziario, spiazzato dagli homines novi, partecipa alla battaglia con le sue migliori testate, le sue migliori firme, i suoi uomini negli apparati della politica e dello stato (il gruppo Repubblica è diviso). I sindacati corporativi sono all’avanguardia. La magistratura dà il suo onesto contributo. L’aria a questo punto si fa pesante. Renzi resta nel breve termine senza alternative credibili, ma che cosa accade al progetto renziano del Pd se nel giro di qualche anno si arriva al voto con la configurazione di una lista significativa di vecchia sinistra che incorpora un pezzo del Pd in rotta con la linea del segretario-presidente? Posto, naturalmente, che la Fassina Fraktion e la coalizione sociale di Landini e Sel e altri soggetti dell’antagonismo giustizialista e altre personalità (che aspetta Rosy Bindi? che farà alla fine Bersani con i suoi?) riescano a non fare pasticci.

Non ho alcuna risposta, ovviamente, e la domanda implica una serie di “se” e di “ma” ad oggi molto ingombrante. L’unica certezza riguarda la situazione generale dell’Italia e, in questo quadro, i problemi del royal baby (la destra sembra intenzionata, sebbene con programmi platealmente efficaci ma piuttosto vaghi e una classe dirigente salviniana non troppo egemonica verso l’elettorato medio, a recuperare autonomia nell’avversione al disegno nazionale ed europeo della sinistra geneticamente ristrutturata da Renzi). La certezza è la seguente: se non riprendono seriamente l’economia e la fiducia nel futuro delle riforme dell’italian way of life, l’esperimento Renzi è a forte rischio. Alla fine, una rappresentanza elettorale nutrita di idee guida ispirate alla critica del liberalismo economico, sostenuta dalla fiducia in Papa Francesco e nel suo apostolato anticapitalistico, irrorata dall’offensiva giustizialista e antipolitica, difficilmente può vincere un ballottaggio, ma può facilmente far perdere il timoniere dell’esperimento. A vantaggio di chi, non si capisce ancora bene, dipende. La questione della detassazione massiccia e della crescita, e del collegamento tra riforme vere (conquistate o strappate con la necessaria radicalità) e nuovo corso nella fiscalità dell’area euro, diventa decisiva. Decisivo arginare il partito dei manettari. Molto dipenderà anche dall’esito della crisi greca, dal destino del governo Syriza e del suo progetto di anticapitalismo con i soldi dei capitalisti. Molto dall’incisività e dalla concretezza dell’azione di governo, e dai suoi risultati. Ma quella che Cerasa e il Foglio chiamano la “prova costume” della riforma fiscale è una partita che se comincia subito è già in qualche ritardo.

Categoria Italia

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