Il prefetto dimezzato

Questione immigrati. Sindaci e governatori attaccano i rappresentanti dello stato, il ministro non li difende

di Salvatore Merlo | 25 Luglio 2015

Nel regime dei segni, dei messaggi, del marketing e degli spettacoli, quando la politica è messa male la spara grossa. Eppure mai era capitato di assistere alla guerra della politica italiana, che è anche governo nazionale e regionale, allo Stato italiano. Roberto Maroni e Luca Zaia, che sono lo Stato in quanto governano Lombardia e Veneto, mitragliano i prefetti, che a loro volta sono il cuore dello Stato, e li accusano di lassismo e sinistrismo. Mentre il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che dal Viminale lo Stato lo governa, invece i prefetti li strattona e li rimuove, quasi accusandoli di leghismo, com’è accaduto a Treviso, quando la dottoressa Maria Augusta Marrosu, in assenza d’indicazione precise, ha preso una decisione a garanzia dell’ordine pubblico e ha spostato un gruppo di cento profughi, assediati da energumeni dalle teste rasate e da residenti impauriti, e li ha ricollocati dal quartiere di Quinto a una nuova destinazione. Il pomeriggio di quel giorno da folli, la signora prefetto aveva dovuto gestire gli eversori di Forza Nuova e gli amministratori della Lega, mentre a sera si è trovata sotto le finestre di casa gli eversori dei centri sociali e sulla scrivania una ramanzina del governo. Tra incudine e martello. Fascisti e antifascisti, destra di governo regionale e sinistra di governo nazionale, si sono scontrati, non come i ragazzi ubriachi di politica degli anni di piombo, ma come ragazzi ubriachi che fanno politica. Mentre dall’Austria, intanto, arrivavano le fotografie di un campo profughi a Feldkirchen an der Donau: il prato curato, l’accoglienza dignitosa, la pulizia, i pompieri che giocano con i bambini immigrati spruzzandoli con l’acqua delle loro autobotti.

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E si capisce che in Italia intorno alla parola immigrazione s’accendono gli appetiti elettorali, s’accelera il metabolismo di ciascuno, e così la politica combatte una battaglia non per l’efficienza e la decenza, che sempre impone il rifiuto dell’isterismo, l’equilibrio tra risorse e accoglienza, il rispetto delle leggi – come ha provato a spiegare con apparente insensibilità Angela Merkel alla televisione tedesca che l’aveva affiancata a una piccola profuga palestinese di nove anni – ma un conflitto televisivo in cui la destra di governo (regionale) appicca il fuoco e la sinistra di governo (nazionale) getta l’acqua, e poi tutti insieme però trasformano in rovine fumanti l’antica “prefettocrazia” di Salvemini (“tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o un podestà creato dal re”). E viene così componendosi la coreografia d’un ballo in maschera dell’irresponsabilità, dell’irrisione involontaria di se stessi, con gli statisti antistato che segano l’albero sul quale sono legittimamente appollaiati, tutto un tic linguistico della parola forte a cui affidare l’inettitudine. Domenica scorsa il vicepresidente del consiglio regionale delle Marche, Sandro Zaffiri, leghista, ha rivolto queste parole al prefetto di Roma Franco Gabrielli: “Porco di un comunista al servizio del Pd… Attento che ti abbiamo segnato sul nostro elenco, arriveremo, l’olio di ricino te ne daremo tanto”. Ed è un attacco che non richiede coraggio, non presuppone l’allestimento di un covo, non c’è neppure necessità di ubriacarsi ideologicamente come facevano le Br: basta aprire Facebook, accendere una telecamera, aprire una Gabbia di talk-show e subito il deputato di Stato, il consigliere di Stato, il vicepresidente di Stato, diventano la palla di cannone contro lo Stato, insultano lo Stato, cercano di demolire la cinta muraria e, dal quartier generale dello Stato, dai consigli comunali e dalle presidenze di regione, bombardano lo Stato nella figura del prefetto.

Dice per esempio Alessandra Moretti, che è del Pd, lei che ha disastrosamente perso le elezioni in Veneto contro Zaia, e forse per questo, malgrado sia consigliere regionale e dunque amministri lo Stato, adesso pensa d’interpretare il nativismo del nord-est diventando torre di sfondamento contro le prefetture e dunque contro lo Stato: “La gestione dell’accoglienza da parte dei prefetti è improvvisata e grossolana”. E i consigli regionali cosa fanno? “I prefetti si trovano a fronteggiare anche i sindaci, che a volte dimenticano di essere ufficiali di governo e si comportano da esponenti di partito”, ha detto Annamaria Cancellieri, che prima d’essere stata ministro della Giustizia e dell’Interno, era prefetto a Bologna, a Parma, a Catania, a Genova… E si comportano da esponenti di partito anche i sindaci del Pd, anche i consiglieri regionali come la signora Moretti, anche i candidati sindaci (sconfitti) del centrosinistra come Felice Casson. E per una volta alla sinistra che imita la destra non può essere nemmeno concessa l’attenuante dell’intelligenza che di solito la redime agli occhi degli osservatori più benevoli. E’ un gioco dei ruoli. Quel che importa è soprattutto la forza, l’energia, l’enfasi. A Brescia sono comparsi dei manifesti con il volto del prefetto, il suo indirizzo di casa, e questa scritta: “Sei un immigrato senza domicilio? Il Prefetto ti invita ad alloggiare a casa sua”. E il prefetto, da uomo di ferro qual era un tempo Cesare Mori, si è ormai trasformato nel muro troppo basso su cui s’appoggiano tutti.

E davvero il prefetto è d’improvviso la figura più sputacchiata d’Italia, malgrado le prefetture siano in realtà l’unico istituto dell’alta burocrazia italiana che persino il rottamatore Matteo Renzi non intende smantellare, ma che anzi la legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato rafforza, amplificandone i poteri, estendendone le competenze fino ad assorbire, per esempio, quelle delle sovrintendenze, secondo un principio di efficientismo centralista che sublima il ruolo del prefetto, forse come mai prima d’ora. Sentite come suona – sarebbe forse piaciuto all’asburgico Joseph Roth – l’articolo 7 della legge Madia, quello che stabilisce la trasformazione delle prefetture in “uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini sotto la direzione del prefetto”. Evidentemente è così che si stanno allenando a estendere i poteri delle prefetture: delegittimando i prefetti.

E il dubbio che qui si vuole ragionevolmente insinuare è che senza la prova di piagnucolosa inefficienza offerta in questi giorni dal ministro responsabile, senza l’urgenza comunicativa tutta teatrale degli amministratori locali che giocano allo scaricabarile accarezzando con la mano unta dell’eversione gli spasmi plebei degli italiani, senza la cavalcata di Salvini e la difesa di Renzi, non ci sarebbe stato il marasma intorno alla collocazione di poche centinaia di profughi, e i prefetti sarebbero rimasti quello che in realtà sono da sempre: servitori dello Stato. E non si sta qui parlando di quel prefetto che a Perugia degradò la sua funzione invitando le mamme dei drogati a suicidarsi, ma di La Marmora e del marchese di Rudinì, del blasone estetico dell’alto funzionario con cravatta, icona più che persona, quello di “indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Nel film di Elio Petri, i prefetti stavano in abito scuro e fazzoletto bianco nel taschino, così che messi in fila, uno a fianco all’altro, la striscia bianca che sorgeva all’altezza del cuore disegnava come un’invalicabile trincea tra l’alta funzione e il mondo circostante.

“Rare sono le volte in cui il prefetto parla senza esservi costretto”, scriveva Luisa Adorno nell’“Ultima provincia”, ritratto affettuoso e tagliente d’una prefettura siciliana negli anni Cinquanta. E va allora davvero misurato tutto questo spurgo di furbizie, di coscienza infetta e aria da birreria, che pochi giorni fa ha costretto questi uomini solitamente affetti da mutismo istituzionale a parlare per bocca del dottor Claudio Palomba, prefetto di Lecce. Poche parole, pronunciate da quel muretto basso su cui oggi s’appoggiano tutti: “I rappresentanti del governo sul territorio sono lasciati soli ad applicare le direttive del governo in tema di immigrazione, spesso in totale opposizione con altri rappresentanti dello Stato, in particolare i sindaci. Siamo diventati bersagli, il governo ci tuteli”. E il suo allarme documenta l’inquietante stato comatoso di una politica ingolfata in chiacchiere, giochi d’illusionistica destrezza, insulti e minacce.

Eppure ogni volta che in Italia c’è un problema, per ognuna delle cicliche emergenze di cui vive questo paese di costanti torpori e spasmi improvvisi, i politici si guardano l’un l’altro negli occhi e si chiedono: “E adesso cosa facciamo? Come risolviamo? Ma chiamiamo un prefetto, ovviamente!”. Perché l’unico modo di combinare qualcosa, nella selva delle leggi contradittorie e nel confronto gladiatorio della politica, è rimediare la dispensa eccezionale, affidarsi all’uomo forte (poi da abbandonare a sé stesso), all’uomo solo al comando, sulle spalle del quale caricare poteri complessivi, indiscutibili, implacabili, superiori a ogni protocollo o procedura, da sempre: il prefetto Mori in Sicilia, Carlo Alberto Dalla Chiesa contro le Brigate rosse e poi contro la mafia, Gabrielli contro terremoti ed esondazioni… E la parola “prefetto”, caricata di speranze salvifiche totali, si è più di recente accompagnata a quelle di “commissario speciale”: per Pompei, per l’emergenza carceri, per le persone scomparse, per rischi idrogeologici, per i beni confiscati alla mafia, per l’anticorruzione, per l’Expo, fino all’amministrazione delle grandi aziende a partecipazione pubblica, con Gianni De Gennaro messo a capo di Finmeccanica. Ne arriverà anche uno per l’immigrazione. Non sarebbe strano un super prefetto, un mega commissario specialissimo che si faccia schiacciare in silenzio, come il prefetto di Treviso, un po’ da Alfano e un po’ da Zaia, un po’ dal governo nazionale e un po’ da quello 

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