La minoranza bersaniana non dispone nemmeno di un diverso progetto politico

 Invece gli ha dichiarato guerra, essendo munita di fionde con le quali ha punzecchiato il suo antagonista

 di Pierluigi Magnaschi  Italia Oggi 7.10.2015

Per riuscire a battere Renzi, la minoranza bersaniana del Pd avrebbe dovuto essere armata con l'arsenale di un programma robustamente alternativo. Invece gli ha dichiarato guerra, essendo munita di fionde con le quali ha punzecchiato il suo antagonista che invece si presentava, anche con la forza delle sua giovinezza e del suo non-passato, con un programma politico molto più efficace e sostanzialmente anche lungamente atteso da un paese soffocato dall'inazione politico-istituzionale che sembrava non avesse mai avuto fine. Il programma di Renzi era sostanzialmente questo: è finita la stagione delle giaculatorie politiche; la Costituzione che ci siamo dati (per evitare che, allora, il fascismo da poco abbattuto potesse riprendere piede) era stata concepita con tanti pesi e contrappesi da non consentire la governabilità del paese; nella stagione della globalizzazione, le situazioni evolvono con tale rapidità che l'esecutivo, per non essere travolto dagli avvenimenti, deve essere in grado di dare, legittimamente, delle risposte molto rapide. Prendiamo due soli casi: due anni fa, il Brasile veniva descritto come un paese in pieno boom, adesso è più sgonfio di una camera d'aria bucata; un anno fa, la Grecia era data come uscita dall'euro, adesso c'è rimasta ancorata. E così via.

Si detronizza il «tiranno» (se tiranno è, intendiamoci), non facendogli il solletico sotto i piedi, né con contorti ragionamenti che stanno tra il rococò e il bizantino, derivati, stranamente, dalla tradizione svogliata e vetero dc dei Ciriaco De Mita o dei Mino Martinazzoli, che si sviluppava all'insegna del motto «mi spezzo ma non mi spiego». Né, soprattutto, si può avere successo raccontando delle balle che un tempo erano bevute senza fare una piega, quando cioè l'elettorato era fideista, mentre adesso, essendo in gran parte, l'elettorato, scettico, esso quindi non ingurgita più, senza fiatare, ciò che gli viene somministrato, ma chiede almeno di conoscerne la composizione.

Pertanto, quando si legge che il giovane ex capogruppo Pd alla camera, Roberto Speranza, se la prende con una legge elettorale (quella in corso di approvazione) che, secondo lui, farebbe del parlamento il luogo «prevalentemente popolato dai nominati», egli dimentica (o finge di dimenticare) che proprio lui è un paracadutato in Parlamento da una decisione specifica e personale di Pier Luigi Bersani che, oltre ad averlo fatto eleggere senza nemmeno affrontare la fatica di una campagna elettorale, lo ha messo, di punto in bianco, anche a capo dei deputati Pd. Una posizione, questa, che un tempo, anche per la sua complessità, rappresentava la conclusione di un lungo cursus honorum nel partito. E lo stesso Speranza (ma non è il solo; anzi lo sono tutti i leader della minoranza dem) si scaglia contro una riforma costituzionale riguardante il senato, quando questa era già stata votata per ben tre volte da coloro che scoprono, all'ultimo momento (dopo tre votazioni senza patemi d'animo?) di essere di fronte a una riforma liberticida e perciò inaccettabile. Che facevano prima? Dormivano? Ed è possibile tollerare il lungo sonno di una classe dirigente che poi, non a caso, presentandosi dopo la tranche, con gli occhi cisposi, non è più credibile, non solo come rivoluzionaria, ma nemmeno come alternativa.

Il guaio della minoranza dem al piccolo trotto, verso una meta che non sa quale sia, è il suo disorientamento, derivante proprio dal fatto che non sa dove andare. A seguire i pure coraggiosi e coerenti Civati e Fassina, uscendo dal Pd, non ci pensano nemmeno. Non solo perché hanno visto come i due sono finiti nella irrilevanza. Ma anche perché, anche i giovani-vecchi della minoranza dem sono, psicologicamente, dei senatori. Abituati a pedalare col favore del vento, non sono disposti a rimettersi in gioco, pedalando in salita. Oltretutto non ce la farebbero più. Ecco perché hanno paura persino di Verdini. Strabuzzando gli occhi dall'ira (o dallo spavento?) gridano che la collaborazione di Renzi con Verdini stravolge la fisionomia del partito anche perché il Pd, aggiungono, ha le forze per sostenere le riforme senza l'aiuto di Verdini. Ma questo avvicinamento fra Renzi e Verdini è avvenuto proprio perché il premier doveva garantirsi dal rischio di andare in minoranza, qualora la minoranza del Pd non lo avesse votato. Questa minoranza, invece, alla fine ha votato perché sapeva che Renzi, con i voti di Verdini e altri, avrebbe fatto a meno di loro. Ma possono, coloro che hanno creato, con la loro agitazione sconsiderata, le premesse per far diventare Verdini l'ago della bilancia, poi lamentarsi che Verdini è cresciuto in potere politico?

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata