Jihadisti di casa nostra

La storia inedita di due islamisti che si sono uniti al Califfato dopo essere stati accolti in Italia. La testimonianza di don Burgio, fondatore del centro Kayros

di Cristina Giudici | 29 Dicembre 2015 ore 14:05

L'associazione Kayros nasce nel 2000 a Lambrate grazie a don Claudio Burgio per accogliere minori in difficoltà. Da lì sono partiti due foreign fighters che si sono uniti al Califfato

“Ciao Burgio, stammi bene, che possa Allah portarti sulla retta via, e farti vedere la luce, Inshallah, ci vediamo in Paradiso”

E’ successo proprio a lui che, ispirandosi alla parabola del figliol prodigo, ha scritto un libro-testimonianza sui “Figli perduti e ritrovati” nel carcere minorile del Beccaria, pubblicato dalle edizioni del Centro Ambrosiano. E’ successo proprio a lui, sacerdote versatile e maestro direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano, nonché fondatore della comunità milanese di accoglienza Kayros, dove ospita tutti i minorenni che rappresentano una sfida umana oltre che evangelica. Minorenni che vengono dal carcere minorile del Beccaria (dove è peraltro cappellano insieme con don Gino Rigoldi), dai barconi che attraversano il Mediterraneo o dalla strada. Eppure, davanti alla guerra dell’Isis, si è trovato inerme e ora persino sospettoso, suo malgrado. Concentrato su una riflessione personale su come proseguire al meglio la sua missione pedagogica. Don Claudio Burgio, compositore di musica sacra, recentemente ha perso un’importante battaglia per l’integrazione e ha deciso di raccontare al Foglio la sua esperienza drammatica per lanciare un allarme e invitare tutti a una riflessione. “Dobbiamo attrezzarci meglio per poter cogliere i segnali della radicalizzazione dei giovani musulmani. Abbiamo il dovere di continuare ad accoglierli. Ma segnali che ci sfuggono, spesso anche per la mancanza di figure sociali come i mediatori culturali, scomparse per problemi di budget nel sistema dell’accoglienza”, ci spiega.

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Facciamo un passo indietro. A cinque anni fa, quando nella sua comunità Kayros è arrivato Moncef da Casablanca. Uno dei ragazzi più problematici perché portava con sé il fardello di un disagio psicologico difficile da gestire. Rifiutato dalla famiglia e dalla madre, che definiva con amaro disprezzo “colei che mi ha generato”, e accolto da un sacerdote devoto alla sua missione sociale di prendere con sé gli adolescenti più in difficoltà, i casi più estremi. Aggressivo, sensibile, alla ricerca di una sua dimensione spirituale, confondeva spesso la sua fede musulmana con l’esoterismo. Moncef usciva ed entrava dalle comunità. Violando le prescrizioni del Corano, visto che fino all’estate del 2014 faceva uso di stupefacenti. La sua storia è lunga, complicata e delicata per chi deve farsi carico di minori arrivati da paesi musulmani con un passato nebuloso, ma Moncef ora è uno dei 90 foreign fighters partiti dall’Italia per diventare mujaheddin dell’Isis. E’ partito all’alba del 17 gennaio del 2015, portandosi dietro un altro giovane musulmano, Tarik, quest’ultimo davvero un punto interrogativo per don Claudio perché, sebbene fosse figlio di un imam in Marocco, del gruppo dei ragazzi marocchini a cui la comunità aveva dato sostegno, accoglienza, possibilità di studiare e trovare un lavoro, sembrava il più integrato. “Quasi un ragazzo modello”, ricorda don Claudio, scuotendo la testa, ancora incredulo. Generoso secondo la percezione del sacerdote-musicologo-educatore, perché aveva dato la disponibilità ad accogliere il problematico Moncef, personalità borderline, in un appartamento dove alcuni maggiorenni marocchini vivevano in gruppo, ormai autonomi, dopo aver avviato un percorso di integrazione che sembrava virtuoso.

“E’ stato un processo velocissimo”, ammette don Claudio che ora ha saputo che entrambi sono vivi, in Siria, ma per lui è come se fossero morti, “perché il loro destino è segnato, e io invece devo pensare a difendere i ragazzi che sono rimasti per evitare che vengano reclutati, contagiati dal radicalismo”. Il commiato che Moncef ha scritto a don Claudio sul pullman che lo portava con Tarik all’aeroporto per andare in Siria, rappresenta per il sacerdote una ferita personale, ma anche un segnale di allarme perché teme ciò che potrebbe accadere nelle parrocchie, negli oratori, nelle comunità che accolgono ragazzi arabi. Moncef gli ha mandato un sms per augurargli di trovare la retta via grazie ad Allah e gli ha inviato un selfie in cui lui, uomo di fede e di innata bontà, ha voluto vedere forse ancora uno spiraglio di speranza perché il volto del suo compagno di jihad, Tarik, era più ombroso del solito. Per don Claudio, è il segno di una fuga riluttante, di sofferenza per una scelta sbagliata. Anche se poi purtroppo ha dovuto ricredersi perché la coppia dei ragazzi marocchini diventati soldati del Califfo, una volta arrivati in Siria, ha continuato e continua a cercare di convincere con messaggi e qualche contatto sui social network chi è rimasto in comunità a vivere una vita occidentale (in qualche caso anche dissoluta) a partire per il Califfato. Al punto che uno di loro, uno dei ragazzi marocchini rimasti, incontrati dal Foglio in una sede nella comunità, ci ha detto di aver ricevuto una minaccia perché davanti alle pressioni di Moncef, che voleva convincerlo a partire, ha risposto con un insulto. Il ragazzo ha ricevuto una tracotante risposta dalla Siria: “E allora sarai il primo che verremo a prendere, quando conquisteremo Roma”.

Don Claudio, rammaricato per aver capito troppo tardi cosa stava accadendo, ci chiede preoccupato se possono rientrare per vendicarsi. E ora ammette di avere molti dubbi, di aver paura che possa accadere di nuovo, sebbene i suoi ragazzi di fede musulmana non mostrino alcun interesse verso la guerra dell’Isis. E anzi, ogni volta che sono stati contattati dalla Siria dai loro due amici, lo hanno sempre avvisato. Ma una volta che il dubbio si insinua, si sa, diventa un tarlo. Perché è vero che Tarik andava sempre in moschea, ma lui, a differenza di Moncef, non aveva mai mostrato segnali di fanatismo.

Come è potuto accadere che due ragazzi si siano radicalizzati sotto gli occhi compassionevoli – ma non ingenui – di chi da anni accoglie i minorenni più difficili, che hanno commesso anche reati gravi prima di arrivare in comunità? “E’ stato un processo velocissimo”, ribadisce in continuazione don Claudio. “Durante le vacanze estive del 2014, Moncef ha deciso di andare a fare un campeggio con i suoi amici musulmani. E quando è tornato non era più lo stesso. E’ diventato improvvisamente calmo, lui, che non riusciva a finire una partita di pallone senza essere espulso, giocava rispettando le regole, senza più aggredire nessuno. Avrei dovuto capirlo subito, che qualcosa non quadrava”, ironizza ora, con un tono amaro. E ancora non sa, non si sa, se sia stato reclutato allora, durante il campeggio musulmano, probabilmente con i tabligh che girano l’Italia per fare proselitismo attraverso la da’wa, l’appello all’islam. Oppure prima ancora in carcere, dove Moncef era finito per un breve periodo per piccolo spaccio di hashish. L’immagine della partita a pallone che da sbandato occidentalizzato non riusciva mai a finire senza compiere un fallo su un compagno della squadra avversaria, e poi da jihadista in erba invece giocava rispettando tutte le regole in campo, diventa una metafora di ciò che accade dopo la radicalizzazione. Dopo il lavaggio del cervello, quando tutto perde importanza perché l’obiettivo finale diventa la guerra santa. In quei tre mesi in cui Moncef aveva cominciato a parlare della giusta guerra dei musulmani, ma senza mai citare l’Isis, nessuno lo aveva preso sul serio tranne Tarik, evidentemente. Neanche un suo coinquilino marocchino di Fes che, dopo la partenza per la Siria, ha ricordato quel giorno in cui Moncef lo ha portato a vedere un’armeria a Lambrate, descrivendogli con dovizia di particolari la potenza di fuoco di pistole e fucili. “Io credevo che fosse solo impasticcato”, ci dice questo ragazzo più che occidentalizzato mentre ci racconta il dettaglio dell’armeria. Don Claudio ha capito che Moncef e Tarik si stavamo preparando a diventare mujaheddin solo pochi giorni prima della loro partenza. Durante una cena in cui, per verificare i suoi sospetti, ha buttato lì una frase sullo Stato islamico e quando ha visto lo sguardo serio e complice di Moncef e Tarik, ha intuito fino a che punto erano arrivati i suoi due ospiti. E così ha segnalato al tribunale le sue paure, ma ormai era troppo tardi.

All’alba del 17 gennaio i due jihadisti in erba sono partiti, dopo essere stati reclutati nell’arco di pochi mesi – e chissà se in campeggio, nel giro della moschea che frequentavano, o su internet, dove Moncef passava molto tempo. All’alba del 17 di gennaio si sono congedati dai loro amici, senza abbracci né sorrisi, e allora anche loro hanno capito che stavano per andare in Siria e hanno avvisato don Claudio. Successivamente i quattro ragazzi rimasti nell’appartamento della comunità Kayros sono diventati sorvegliati speciali: controllati, monitorati e continuamente interrogati dalla Digos, soprattutto dopo la strage di Parigi. All’inizio ogni volta che ricevevano un messaggio dalla Siria avvisavano don Claudio. Poi per mesi più nulla, i due jihadisti sono scomparsi e sono cominciate le congetture. “Tarik è ferito, Moncef è morto”, si diceva in comunità. Finché il primo dicembre scorso Moncef, con un profilo falso su Facebook, ha riprovato a contattare i suoi amici mentre Tarik ha tentato di nuovo di riprendere dei contatti via telefono.

Sono dunque vivi e determinati a reclutare gli amici rimasti in Italia. E ora che la guerra dell’Isis ha oltrepassato la soglia di casa, don Claudio teme che possa accadere di nuovo e dice al Foglio una frase significativa: “Il nostro problema è che non riusciamo ancora a capacitarci di essere in guerra”.

Certo, don Claudio crede nella parabola del figliol prodigo, è un sacerdote che non rinuncia alla sua missione di integrazione e riscatto delle anime più fragili, le evangeliche pecorelle smarrite. Anche perché il suo pensiero è contenuto in un altro libro scritto con le testimonianze dei suoi ragazzi, italiani e stranieri usciti dal carcere, “Non esistono ragazzi cattivi” (Giunti editori), e in una lettera scritta per i suoi ragazzi ha scritto: “Mi sono convinto, tuttavia, che sono almeno due i motivi per cui vale la pena dedicare tutto me stesso ai voi: primo, perché credo in ognuno di voi; secondo, perché credo in Dio”. Ora però si è creato un buco nero scavato da Moncef e Tarik, diventati soldati del Califfato, con cui fare i conti. Conti che davanti a una guerra, soprattutto a questa guerra degli islamisti, non tornano mai.

Categoria Italia

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