Il referendum fallisce, il Pd anche. Volano gli insulti: ecco chi si scanna

Due opposizioni da reinventare. Anzi tre, contando pure la Cosa rossa che potrebbe (avrebbe potuto?) coagularsi attorno al corpaccione del governatore pugliese Michele Emiliano, almeno sino a ieri aspirante rivale di Matteo Renzi alla leadership del Pd.

di Fausto Carioti Libero 18.6.2016

Alla fine ha votato un terzo degli elettori, ben meno del quorum del 50% richiesto dalla Costituzione per rendere valido il risultato. Eppure sulla carta i rivali di Renzi avevano i numeri per metterlo alle corde.A favore del referendum si erano pronunciati innanzitutto i grillini, che i sondaggi accreditano di percentuali attorno al 26%. Stessa cosa aveva fatto la Lega, collocata sul 14%. Se solo gli elettori di questi due partiti avessero seguito le indicazioni, ieri si sarebbe presentato ai seggi il 40% degli italiani. Al conto vanno poi aggiunti i Fratelli d’Italia (5%), Sinistra Italiana (4%), altri cespugli di sinistra (2% circa) e ovviamente una parte non definita, ma comunque ampia, di Forza Italia, partito tuttora quotato attorno al 13-14%, nonché una fetta di quel Pd che Renzi ha schierato ufficialmente per l’astensione, ma che governa in sette delle nove regioni che hanno promosso il quesito. Per i Cinque Stelle e i partiti a sinistra del Pd il no alle trivelle (e ai combustibili fossili e alle multinazionali depredatrici ecc. ecc.) doveva inoltre essere un tema “identitario”, capace di far mobilitare gli elettori con uno schiocco di dita, per ricavarne a gioco concluso un bel dividendo elettorale. E invece.

Alla fine, più di tutto questo, ha pesato la scelta di Renzi di ridurre al minimo l’informazione sul referendum, di non accorpare il voto con le elezioni amministrative di giugno e di tenere i seggi aperti per un solo giorno: lussi che può permettersi solo chi sta al governo. Così il quorum è rimasto lontano e il premier può pensare alle sfide che per lui saranno decisive: le Comunali, appunto, e il referendum sulla riforma costituzionale di ottobre, appuntamenti ai quali conta di presentarsi portando in omaggio agli italiani sconti fiscali e altre prelibatezze elettorali. Il governo sta lavorando a un taglio dell’Irpef per i lavoratori dipendenti, al calo della pressione fiscale sulla previdenza complementare, a una riduzione degli oneri contributivi sul costo del lavoro e a un bonus bebè per il secondo figlio: tutte cose da annunciare nell’imminenza delle prossime chiamate ai seggi.

È contro questo Renzi pronto a creare deficit pur di vincere, e ripartendo da un risultato come quello di ieri, che le opposizioni devono trovare un modo per contendere al Pd il governo del Paese. Anche ieri i Cinque Stelle hanno confermato tutti i loro limiti: bravissimi a fare caciara, inadeguati quando si tratta di convincere la maggioranza degli italiani della bontà delle loro proposte. La scomparsa di Gianroberto Casaleggio, l’unico tra loro dotato della cultura necessaria a maneggiare le categorie della politica, rischia di essere letale per il “movimento”. La vittoria alle Comunali di Roma sarebbe un ottimo ricostituente, ma se dovesse andare male nella capitale (a Milano e a Napoli grosse possibilità non se ne vedono) il mito grillino della crescita felice sino alla conquista del potere subirebbe un brutto colpo.

Per il centrodestra la lezione del voto di ieri è che inseguire i Cinque Stelle e la Cgil su temi come il contrasto alla modernità e all’impresa non paga. La buona notizia è che Stefano Parisi, che contende al pd Beppe Sala la guida di palazzo Marino, rappresenta l’esatto opposto di quello che volevano i promotori del referendum: è da lui e dal suo approccio pro-mercato che la coalizione riparte, non solo a Milano.

L’impressione è che a Renzi, ancora per qualche tempo, i problemi maggiori continueranno a crearglieli a sinistra. Emiliano, che per tutto il pomeriggio è andato in giro a dire che il quorum era a portata di mano, dopo il voto di ieri rappresenta un pericolo ancora minore di quanto fosse alla vigilia. Ma anziché compattare il Pd sulla linea vincente del segretario-premier, la vittoria ha approfondito la spaccatura tra le due anime del partito.

I seggi erano ancora aperti e già volavano gli insulti. In prima fila l’ultrà renziano Ernesto Carbone, che dopo la diffusione dei dati sull’affluenza alle 19 ha pensato di sfottere con un tweet i referendari, iniziando dai compagni di partito: «Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare #ciaone». Il bersaniano Miguel Gotor, decisamente uno dei più educati a rispondergli, lo accusa di «atteggiamento irresponsabile» e gli fa presente che «esaltare la scelta dell’astensione alla vigilia di importanti elezioni amministrative e pochi mesi prima del referendum sulla Costituzione rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang per lo stesso Partito democratico». Questo mentre lo staff di Palazzo Chigi accusava Emiliano di «retwittare chi odia il Pd», nientemeno. La resa dei conti di Renzi con i suoi avversari culminerà nel referendum di ottobre, ma è iniziata ieri sera.

di Fausto Carioti

Categoria Italia

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