M5s, così Di Maio costruisce la sua leadership

Accreditamento in Ue. Abbandono delle posizioni anti-euro. Presa di distanza da Farage. E garantismo. Le mosse del grillino per arrivare a Palazzo Chigi.

di Francesca Buonfiglioli | 21 Aprile 2016 lettera43

Sedurre un elettorato più vasto possibile. Accreditarsi come leader in Europa. Smorzare i toni «manettari» e da «vaffa».

Soprattutto ora, con la scomparsa di Gianroberto Casaleggio, detentore del verbo grillino.

ATTEGGIAMENTO DA LEADER. L'azione di smarcamento di Luigi Di Maio è già cominciata. Lo si è visto perfettamente la scorsa settimana a Milano. È stato il primo a raggiungere Davide Casaleggio, ha partecipato composto al funerale senza sprecare lacrime, perché un vero capo non cede al sentimentalismo, non ruba la scena e sa stare al suo posto.

E ha ricevuto l'acclamazione della folla pentastellata ammassata all'ingresso di Santa Maria delle Grazie.

Una investitura popolare che però non può bastare. E, infatti, poco dopo è arrivata la dichiarazione: «Pronto a diventare leader del Movimento con il voto della Rete». Uno strappo in avanti che ha disturbato gli ortodossi, i cosiddetti talebani silenziosi. Ma che è stata rilanciata dall'altra pentastar Alessandro Di Battista.

L'OBIETTIVO È IL 2017. Candidato premier, sì. Ma quando? Già nel 2017, in caso di elezioni anticipate.

Anche se dare la spallata al governo Renzi è tutt'altro che una passeggiata. Il mancato raggiungimento del quorum nel referendum sulle trivelle e delle mozioni di sfiducia al governo Renzi sono lì a dimostrarlo.

GELO QUIRINALE. Per non parlare delle due smentite del Quirinale circa l'esito dell'incontro tra Sergio Mattarella e i capigruppo Nunzia Catalfo e Michele Dell'Orco sull'ingresso dei verdiniani in maggioranza.

Curare il rapporto con la massima carica dello Stato ora è più che mai fondamentale. E rientra nella strategia di normalizzazione intrapresa dai pragmatici del Movimento.

Il presidente ha però gelato l'entusiasmo espresso dai grillini all'uscita, precisando che presentare mozioni di sfiducia al governo non è «sacrosanto», ma «legittimo». E che per ora ha ravvisato alcun motivo per intervenire.

Livorno e il garantismo di convenienza

Meglio però non perdere tempo. E continuare l'opera di normalizzazione in giacca e cravatta, all'insegna del pragmatismo e della Realpolitik.

Può essere letta anche con questa lente la svolta garantista del Movimento che ha fatto quadrato intorno a Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio del Comune di Livorno finito indagato con le accuse di bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e abuso d'ufficio nell'inchiesta che riguarda la municipalizzata Aamps, azienda dei rifiuti controllata interamente dal Comune.

L'INCUBO DI QUARTO. Lo scivolone di Quarto, infatti, è ancora fresco. E visti i risultati, meglio evitare un bis a Livorno.

Insomma il giustizialismo non paga, meglio allora calmare gli animi, derogare alle regole e cambiare strategia.

Lammetti ha già annunciato che non intende dimettersi, sostenuto dal sindaco Filippo Nogarin che in lui «ha piena fiducia». Il primo cittadino mette le mani avanti, visto che tra i prossimi avvisi di garanzia ce ne potrebbe essere uno anche per lui. E, infatti, ha prontamente dichiarato: «Quando metti le mani nel fango, non puoi sperare di uscirne pulito al 100%».

Ma in questo caso, a differenza di Rosa Capuozzo prima cittadina della città campana che fu addirittura espulsa, Di Maio, Roberto Fico, Daniele Toninelli e pure Virginia Raggi si sono spesi in difesa dell'assessore.

INDAGATI? NESSUN PROBLEMA. Il primo è stato al solito Di Maio, che ha dettato la linea dichiarando al Fatto che le dimissioni sono richieste solo «in caso di rinvio a giudizio».

A ruota, gli altri.

«Se capitasse a me un assessore con un avviso di garanzia? Valutiamo, se l'avviso di garanzia è pesante, se c'è qualcosa di grave...valutiamo caso per caso», ha commentato Raggi a L'aria che tira. «È una domanda che mi sembra un po' generica».

TENDENZA DEMOCRISTIANA. Insomma le dimissioni ora non sono automatiche. «Dipende», ha aggiunto la candidata al Campidoglio in perfetto stile democristiano. «Si valuta, bisogna capire per cosa. Su Livorno non mi esprimo». Prima di giudicare, bisogna studiare le carte.

«Aspettare la fine delle indagini?» ha chiesto Givanni Floris a un imbarazzato e imbarazzante Fico l'ortodosso.

«No», è stata la risposta, «non aspetto la fine delle indagini, ma cerchiamo un attimo di capire che cosa è successo. Chiediamo solamente il tempo di comprendere che cosa sia successo». Scaricando la responsabilità sui «governi precedenti», cioè quelli del Pd.

Dimissioni sì, ma per gli altri

Comprensione che evidentemente è stata molto più rapida per l'inchiesta di Potenza.

«Hanno indagato il sottosegretario del governo Renzi - De Filippo - coinvolto nello scandalo Trivellopoli», pontificava in Facebook Di Maio solo qualche giorno fa. «Se la Guidi si è dimessa e non era indagata, per De Filippo cosa dovrebbe accadere?».

E doveva dimettersi pure Maria Elena Boschi, perché citata in una intercettazione. Ma anche perché figlia di un indagato nella vicenda Banca Etruria.

Pure a Quarto non c'è stata tutta questa incertezza e presunzione di innocenza. O meglio, il sostegno dello staff a Capuozzo è stato tolto non dopo la lettura di carte (il sindaco non era indagata) ma all'esplosione mediatica del caso.

Il risultato? Capuozzo è rimasta in sella, espulsa dal Movimento.

MANETTARI ADDIO. E dov'è finito il Di Maio manettaro e barricadero? Quello che a fine 2015 dichiarava: «Non sono a favore della presunzione d’innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare, lo chiedono gli elettori».

E in caso di innocenza? «Semplice, si ripresenta».

O il Di Maio contabile che, grazie anche a un video diffuso da La Cosa, censiva urbi et orbi gli indagati del Pd: 83. E annotava pieno di boria: «Mi fa piacere che il Pd abbia abbandonato il suo finto garantismo. Renzi e la Picierno, che protestava a Quarto, ora chiedano le dimissioni dei sindaci Pd indagati».

Per restare in Toscana, nel febbraio 2015 Di Maio con Nogarin si fecero immortalare con un il cartello «Filippeschi dimettiti», rivolto al sindaco di Pisa, non indagato ma del Pd.

CONTRO DE LUCA. Lo scorso aprile, invece, l'obiettivo era Vincenzo De Luca, «uomo politico indagato per abuso d’ufficio simbolo di un Pd corrotto». Per fortuna, diceva sempre Di Maio a Salerno, «il Movimento 5 stelle ha già ristretto la legge Severino. Con noi non si possono candidare persone che sono indagate o condannate e per questa ragione noi abbiamo già una restrittività sulla legge Severino che dimostra che non bisogna aspettare le leggi per non mandare condannati in parlamento».

Gli esempi potrebbero continuare. E il povero Fico che balbettando assicura in tivù che «no, non c’è mai una doppia morale» è costretto a negare l'evidenza.

L'OPA SULL'ELETTORATO DI DESTRA. Il fatto è che l'onestà-onestà-onestà può piacere tanto agli attivisti, specie quelli della prima ora.

E può pure essere un bello slogan da gridare dagli scranni del parlamento, magari muniti di un apriscatole. Ma forse non paga abbastanza in termini di voti.

Spaventa un elettorato di destra sul quale Di Maio e i suoi hanno lanciato un'opa.

Molto meglio quindi chiudere un occhio e trasformarsi pragmaticamente in garantisti.

La presa di distanza dall'Ukip e il no Brexit

Nella costruzione di un leader, l'accreditamento presso le istituzioni europee è obbligatorio.

E un aspirante leader a capo di un Movimento giovane e per di più alleato a Bruxelles con gli euroscettici di Nigel Farage non offre credenziali sufficienti.

Un problema? No di certo.

L'UE DIVENTA UNA RISORSA. Di Maio, in missione parlamentare a Londra a spese della Camera, ha assicurato a due mesi dal referendum del 23 giugno in barba all'alleato dell'Ukip: «Noi siamo contro la Brexit perché siamo convinti che l'Unione europea possa essere una risorsa. Poi tutt'altro discorso si fa sull'euro...».

E pure il rapporto con l'Ukip, al quale lavorò Davide Casaleggio, è stato ridimensionato a un'«alleanza tecnica». «Con loro siamo d'accordo su alcuni temi di politica economica, su molte altre cose non siamo d'accordo», ha precisato Di Maio. «Lo abbiamo sempre detto».

In ogni caso a Londra non è previsto alcun incontro con Farage: la delegazione dell'Ukip vedrà solo Douglas Carswell, rappresentante eletto alla Camera dei Comuni, nella sua veste di «cultore del controllo parlamentare», ha assicurato il vicepresidente della Camera.

INTERFERENZA CON GLI ALLEATI. A Bruxelles, dicono i pentastellati a Lettera43.it, la notizia non provoca alcuno scossone: «La linea è chiara dall'inizio, con l'Ukip c'è libertà di scelta su tutto. Non abbiamo mai detto che avremmo sostenuto la Brexit, né che l'avremmo contrastata».

Tutto a posto, quindi? Non proprio. Perché c'è chi sostiene che non ci sarebbe dovuta essere alcuna interferenza con i britannici. A quanto pare, Di Maio prima di andare a Londra non è passato da Bruxelles, e ha fatto di testa sua lanciando la linea no Brexit.

Mind of your own business è la regola, fa' gli affari tuoi. E Di Maio sembra averla infranta.

VERSO UNA USCITA DAL GRUPPO? I maligni sostengono che invece i rapporti con Farage siano ai minimi storici. Passi la loose association, la libertà di votare liberamente, ma gli europarlamentari grillini di fatto votano quasi sempre in linea con i Verdi.

Di più: l'accrocchio con Farage li ha penalizzati. Non hanno occupato nessuna poltrona, zero presidenze o vice presidenze di una Commissionee e sono costantemente boicottati dai socialisti, dal Ppe e dall'Alde. La scusa di stare nell'Efdd solo per essere liberi poi non regge, visto che non esiste il vincolo di mandato.

Che sia arrivata l'ora di cambiare? Nel caso il gruppo perderebbe 17 membri finendo a quota 31, poco sopra la soglia dei 25.

E il M5s potrebbe allora imparentarsi con Ecr, i conservatori e riformisti dei quali fa parte David Cameron che difendono la sovranità degli Stati, sono per il libero mercato e contro l'immigrazione illegale. Ma sono solo ipotesi.

L'ingresso del neoliberista Luigi Zingales come economista di riferimento del M5s potrebbe però essere un indizio in questa direzione.

Il mea culpa su euro e Unione

Ma il primo accreditamento di Di Maio presso il consesso europeo è arrivato a fine marzo, con l'invito ufficiale del grillino come ospite d'onore all'appuntamento organizzato a Roma dall'ambasciata olandese e indirizzato ai 28 rappresentanti dei Paesi membri.

In quell'occasione Di Maio avrebbe frenato sulle posizioni anti Ue e anti euro.

Mentre fino a pochi mesi fa il Movimento promuoveva la raccolta firme per un referendum sull'uscita dalla moneta unica.

IL REFERENDUM DIMENTICATO. Sulla pagina del M5s dedicata al tema - Come uscire dall'euro - è scritto nero su bianco: «La legge costituzionale per indire il referendum sarà presentata agli italiani sotto forma di legge di iniziativa popolare. Per poterla depositare in parlamento è necessario raccogliere almeno 50 mila firme in sei mesi. Una volta depositata, presumibilmente a maggio 2015, i portavoce del M5s alla Camera e al Senato si faranno carico di presentarla in parlamento per la discussione in Aula. Approvata la legge costituzionale ad hoc che indice il referendum, considerando i tempi di passaggio tra le due Camere, a dicembre 2015 gli italiani potranno andare alle urne ed esprimere la loro volontà sull'uscita dall'euro con il referendum consultivo».

«BASTA MERKEL E RENZIE». E ancora: «Il 14 novembre il M5s ha presentato in Cassazione il testo della legge di iniziativa popolare e in poche settimane inizieremo a raccogliere le firme per la legge di iniziativa popolare per indire il referendum. Abbiamo bisogno del maggior numero di firme possibile per non lasciar alcun alibi a questi portaordini della Merkel e della Bce capeggiati da Renzie. Gli italiani devono poter decidere se vogliono morire con l'euro in mano oppure vivere e riprendersi la propria sovranità».

Tutto resettato, almeno dal leader in pectore Di Maio.

Nell'euro e in Europa si può restare, se è il prezzo per arrivare a Palazzo Chigi.

Categoria Italia

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