IL RACCONTO. L'addio a Benedetto nel bel mezzo di un gelido inverno

I pellegrini bavaresi, i cori e gli striscioni, la fredda omelia di Francesco. Cronaca della fine di un’èra

MATTEO MATZUZZI 05 GEN 2023

Nel giorno dell'addio a B-XVI, le virtù ritrovate dell'occidente sono il vero miracolo

Benedetto XVI e Francesco: diversi, certo. Ma i Papi non fanno scismi

La scena in piazza San Pietro, prima delle otto del mattino, è spettrale. La luce naturale è poca e solo i faretti posti lungo il colonnato riescono a fendere la nebbia che nasconde perfino il Cupolone. Fa freddo, la gente batte i denti e cerca di coprirsi con quel che si è portata dietro e che al controllo del metal detector non è stato ritirato (prendevano pure gli ombrelli, sia mai che a qualcuno venisse l’intenzione di scagliarli contro chissà chi). Coperte, sciarpe, qualcuno usa un asciugamano bianco da bagno.

Pochi minuti dopo le 8.45, con i lugubri rintocchi delle campane in sottofondo, ecco spuntare dalla basilica la bara in legno di cipresso con i resti mortali di Benedetto XVI. Sopra, il suo stemma con il monaco di Frisinga, la conchiglia e l’orso di Corbiniano. E’ portata a spalla dai sediari, che la posano sul tappeto davanti all’altare. Poco dopo, il fedele segretario Georg Gänswein – che in un libro di prossima uscita (Nient’altro che la verità, Piemme) ha fatto sapere che il Papa aveva già preparato una lettera di dimissioni nel lontano 2006, da usare se fosse stato constatato il venir meno delle forze fisiche e mentali – appoggiava sulla cassa il Vangelo aperto.

Iniziava la recita del rosario in una piazza piena di 50 mila fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Giovani con striscioni che chiedevano, come per Giovanni Paolo II nel 2005, che Ratzinger sia fatto “santo subito”. Altri puntavano più in un alto, salutando “Papa Benedetto Magno”. C’erano religiose, migliaia di preti in talare, tra cui tanti giovani. Anziane signore commosse in veletta nera, immagine dell’altro secolo, attempati gentiluomini bavaresi che sfidavano il freddo con i caratteristici pantaloni al ginocchio. Davanti, una lunga teoria di teste mitrate, vescovi e cardinali.

Si vede il cardinale Joseph Zen, sorridente e con il bastone, che ha ottenuto il “permesso” delle autorità leali a Pechino di poter prendere parte alla messa esequiale di Benedetto XVI. Il Papa entrava più tardi, in sedia a rotelle. Un applauso lo accoglieva – sarà uno dei pochi – e di questa celebrazione resterà anche il gelido silenzio seguìto alla breve omelia, non una volta interrotta dal popolo fedele, forse anche perché assai impersonale e priva di quell’emozione che contraddistinse le parole spese dall’allora decano al funerale di Wojtyla.

“Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!”, dice Francesco in conclusione, dopo aver assicurato che “anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita”. Il resto della messa procede veloce, tra i canti del Coro della Cappella sistina, i Kyrie, il Sanctus, l’Agnus Dei. Il salmo è quello classico, “Dominus pascit me, et nihil mihi deerit”, il Signore è il mio pastore, non manco di nulla.

Il brano evangelico è tratto da Luca, “Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: ‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’. Detto questo, spirò”. Mentre la folla faceva la fila per ricevere la comunione, s’intonava il De profundis. Quindi, il cardinale decano, Giovanni Battista Re, benedice e incensa il feretro. I sediari tornavano sul sagrato e mentre tutti cantavano “In Paradisum deducant te Angeli”, la campana ricominciava a suonare e Benedetto XVI lasciava per sempre la piazza. Scattava quindi spontaneo un applauso, giovani e signori di mezza età iniziavano, da un braccio all’altro del colonnato, a chiedere di nuovo che la Chiesa s’affretti a farlo “santo subito”. Spuntavano bandiere polacche listate a lutto, subito seguite da quelle bavaresi, tedesche e da una francese con il profilo della Madonna. Nel frattempo, la nebbia s’alzava e la Cupola tornava a mostrarsi in tutta la sua bellezza.

Iniziava così il momento privato, quello della tumulazione nelle Grotte vaticane. Il posto scelto è quello che fu di Giovanni Paolo II fino al giorno della beatificazione, undici anni fa. Pochi i presenti, in prima fila mons. Gänswein, le memores e la fidatissima suor Birgit Wansing, storica assistente di Ratzinger e fra le poche persone al mondo capaci di comprendere la minuta calligrafia del Papa emerito. Anche qui, canti e preghiere. La bara di cipresso veniva inserita in quella di zinco che, una volta saldata, era posta a sua volta in una più grande, in legno. Sopra, l’iscrizione solenne “corpus Benedicti XVI”. E in una fusione tra antico e moderno, nella piccola cappella sotterranea si vedevano ceralacche, fettucce di nastro rosso e saldatrici. Un’ultima benedizione e il raccoglimento personale. La sera prima, il volto del Pontefice emerito era stato velato in una breve cerimonia durante la quale erano state inserite nella cassa le medaglie del pontificato, i pallii e le monete. Anche il rogito, che ripercorreva l’esperienza terrena di Ratzinger. Infine, la preghiera del segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin.

Non si sono viste, come era ovvio, le folle che invasero Roma diciassette anni fa, quando in milioni sfilarono davanti al catafalco con Giovanni Paolo II e poi parteciparono al funerale. Quella in piazza era, si può, dire una minoranza creativa, come aveva profetizzato alla fine degli anni Sessanta durante le celebri conversazioni radiofoniche natalizie lo stesso Ratzinger. Un gruppo fedele convintissimo di quel che Benedetto XVI ha rappresentato, per la Chiesa e per la loro vita. Non c’erano i “tre presidenti americani” che sbarcarono a Roma nel 2005 – a rappresentare gli Stati Uniti c’era solo l’ambasciatore presso la Santa Sede –, pochi erano i capi di stato e per lo più europei (il polacco Duda inginocchiato mentre il feretro lasciava la piazza). La delegazione più numerosa, come previsto, era quella italiana: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la premier Giorgia Meloni, il presidente della Camera Lorenzo Fontana. C’era perfino Mario Draghi, immortalato mentre chiacchierava con Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia.

A funerale terminato, da Kyiv facevano sapere che il vecchio Papa aveva spedito, il 7 marzo, una lettera al capo e padre della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk. Poche parole, ma chiarissime: “Beatitudine! Venerato Fratello! In quest’ora di grande difficoltà per il Suo popolo, Le sono vicino e vorrei assicurarLe che Lei e la Sua Chiesa siete sempre presenti nelle mie preghiere. Che il Signore La protegga e La guidi giorno dopo giorno. Che Egli soprattutto vinca l’accecamento che ha condotto a simili misfatti. Con questi sentimenti, rimango Suo nel Signore. Benedetto XVI”.

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