Paura di dirsi cristiani (a Londra)

Crocifissi nascosti, chiese che chiudono. La Gran Bretagna si sottomette al laicismo, ma dovrà fare i conti con l’ascesa islamica

di Matteo Matzuzzi | 25 Marzo 2015 ore 06:18 Foglio

Roma. Se si è cristiani, è preferibile non dirlo. Almeno in Gran Bretagna. Si corre il rischio di essere insultati, derisi o – quando va bene – passare per poveri e retrogradi bigotti. Per farsene un’idea, è sufficiente dare un’occhiata al rapporto pubblicato di recente dalla locale Commissione per le Pari opportunità e i diritti umani, organismo di baronesse e professori istituito dal governo nel 2007. Al questionario hanno risposto in più di duemila, e il quadro che ne è emerso rende l’isola di Elisabetta II una copia tutt’altro che sbiadita della Francia secolarizzata che per settimane s’arrovella sulla carne di porco da inserire o togliere dai menù scolastici e sui presepi da rimuovere dalle sale comunali della Vandea.

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 C’è la bambina umiliata davanti a tutta la classe perché ha osato dire che l’universo è stato creato da Dio: “L’ho imparato a catechismo, e la maestra mi ha detto che sono una pazza religiosa”. Ci sono gli impiegati che prima di alzarsi dalla sedia per recarsi in processione alla macchinetta del caffè o al distributore di snack controllano d’aver nascosto con cura ogni simbolo che possa ricondurre a una qualche credenza soprannaturale – catenine, braccialetti, anelli, e così via – per non beccarsi le ridanciane sortite dei colleghi devoti alla dea ragione, neanche fossero sul lungomare di Gedda, nella wahhabita Arabia Saudita. Il fatto è che i datori di lavoro sono terrorizzati dal rischio di finire nei guai a causa dell’Equality Act del 2010, la legge che protegge dalla discriminazione (prima di tutto sessuale, ma anche confessionale) in ufficio, scuola o fabbrica, e quindi vietano tutto ciò che possa in qualche modo infrangere il mito dell’assoluta neutralità: “Esibire un crocifisso, un rosario o qualsiasi altro gioiello è vietato, mentre anelli al naso, piercing sulla lingua e tatuaggi vanno bene”, ha scritto uno degli intervistati. “C’è un problema – ha commentato Mark Hammond, il braccio operativo della commissione che ha realizzato lo studio – Quella legge ha portato confusione, ha causato tensioni tra i gruppi confessionali e creato ansia ai datori di lavoro che temono di infrangere la legislazione sulle pari opportunità e i diritti umani”, finendo così nei guai. Simon Calvert, vicedirettore del think tank Christian Institute, si dice paradossalmente sollevato che pure la commissione per i Diritti umani “cominci a rendersi conto che c’è un problema”. Certo, sarebbe utile – aggiunge Calvert – “ammettere che quella stessa commissione è stata parte del problema, visto il modo con cui spesso, in passato, ha aggredito i cristiani”. Mister Hammond, insomma, dovrebbe fare uno sforzo di memoria e ricordarsi quando un avvocato dell’organismo che lui dirige parlò di “infezione” a proposito della presunta “diffusione di opinioni cristiane” in terra britannica.

Un’infezione che, però, i vescovi anglicani non vedono. Semmai, hanno fatto sapere qualche settimana fa, il pericolo è di vedere gli edifici di culto serrati per mancanza di clero e fedeli più o meno attivi nel partecipare alla santa messa domenicale. La previsione, confortata da analisi statistiche e da una buona dose di realismo, arriva direttamente dal Sinodo generale della chiesa d’Inghilterra: in meno di un decennio, le chiese locali potrebbero scomparire in gran parte della Gran Bretagna rurale. A meno che non si riesca “ad attrarre in breve tempo nuovi membri”, magari attraverso un’intensa campagna di proselitismo messa in piedi con metodi e slogan capaci di incuriosire le nuove generazioni che si professano agnostiche per mancanza di allettanti alternative. Il direttore finanziario di Canterbury, John Spence, ha delineato i contorni di quella che appare come un’agonia in stato avanzato: la partecipazione sta declinando dell’uno per cento ogni anno, e due terzi dei membri della chiesa d’Inghilterra hanno più di cinquantacinque anni. “Se si fa una proiezione di questa tendenza, si scopre che entro il 2057 i fedeli passeranno dal milione e duecentomila del 2007 a due o trecentomila”. Come un paio di quartieri d’una grande metropoli europea, una ridotta comunque destinata all’estinzione naturale. Ci sono intere parrocchie, nell’Inghilterra profonda, tenute in vita da ultrasettantenni, ha aggiunto Spence: niente catechismo, niente oratorio, niente gite estive per fare gruppo. E nessuno, neanche tra i maggiorenti del Sinodo presieduto dall’arcivescovo Welby, pare credere troppo alla possibilità che il via libera all’ordinazione delle vescovesse possa giovare alla causa evangelizzatrice, alimentando la chiesa con centinaia di migliaia di britannici finora distratti.

Facile dunque ipotizzare quel che accadrà entro qualche anno. Anche perché, scriveva il Telegraph, a fronte della lenta scomparsa dei cristiani dal Regno Unito, a crescere è la comunità islamica. Il numero dei bambini cresciuti come musulmani in Gran Bretagna è “quasi raddoppiato” nell’ultimo decennio: un alunno su dodici è musulmano e la metà degli islamici britannici ha meno di venticinque anni. Un terzo, meno di quindici. Altro che disquisizioni sul menù halal, tra poco questo diventerà la regola, sottolinea chi è convinto che il cambiamento nella società britannica non sia ormai arrestabile. I numeri sono chiari, “e pongono diverse questioni politiche al governo”, sostiene Shuja Shafi, segretario generale del Consiglio islamico britannico. Se n’erano accorti a Birmingham, la seconda città del regno per numero d’abitanti, dove ormai interi quartieri – non periferici – sono popolati in maggioranza da uomini e donne che si dichiarano prima di tutto fedeli ad Allah. “Anche se l’immigrazione si fermasse domani”, ragiona per assurdo David Voas, direttore dell’Istituto per la ricerca sociale ed economica all’Università di Essex, “è chiaro che  entro la metà di questo secolo, o forse un po’ più tardi, il dieci per cento della popolazione di questo paese sarà musulmano”. D’altronde, ha chiosato Voas, basta guardare quel che già stanno facendo alcune amministrazioni locali, pronte “a riservare intere piscine, per determinati periodi, alle sole donne”.

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