Disavventure coraniche

Cosa può insegnare all’islam il ritrovamento di un Corano più antico del previsto. E perché cristianesimo ed ebraismo non sono stati sconfitti dalla scienza storica

il Corano conservato nella Cadbury Research Library dell’Università di Birmingham sarebbe databile, in base all’esame del carbonio 14, tra il 568 e il 645 d.C.

di Maurizio Crippa | 09 Settembre 2015 ore 06:18

Che cosa accadrebbe se si scoprisse che alcune sure del Corano (precisamente la 18, 19 e 20) erano già raccolte in forma scritta mentre Maometto era ancora in vita – contrariamente a quanto sostenuto dalla tradizione islamica, secondo cui la prima redazione scritta del Corano fu fatta realizzare dal califfo Abu Bak, dalla quale derivò poi il testo “ufficiale” del Libro fatto approntare dal terzo califfo Uthman verso il 650, due decenni dopo la morte del Profeta? Forse non sarebbe uno scossone letale per l’islam, che ritiene fatto inequivocabile che il Corano sia stato dettato al Profeta dall’arcangelo Gabriele, ma che pure accoglie la tradizione secondo cui Uthman ordinò di assemblare gli appunti scritti dei primi compagni di Maometto confrontandoli con la tradizione orale. Più preoccupante, ovvio, sarebbe il ritrovamento di una copia del Corano compilata prima dell’inizio della rivelazione (610 dell’èra cristiana) e addirittura prima della nascita del Profeta (570-632). Questo sì metterebbe in dubbio l’attendibilità dell’islam così come viene professato dalla maggioranza dei musulmani, basato sulla natura divina, senza autore umano e non modificata del Libro. Ma simili notizie metterebbero in dubbio la religione islamica in quanto tale? Dipende dall’islam, a dirla tutta. In teoria, potrebbe non essere così.

Quelle notizie, sempre in teoria, potrebbero non essere più devastanti di quanto lo siano, per la credibilità del cristianesimo, l’ipotesi che il Vangelo di Giovanni, più che dall’Apostolo prediletto, sia stato redatto da un’intera “scuola giovannea” (seppure è acclarato che sia un testo del I secolo dell’èra cristiana), o il fatto che la lettera agli Ebrei non sia opera di Paolo. Forse, quelle notizie non sarebbero più devastanti di quanto lo sia per i canoni dell’ebraismo la consapevolezza che la Legge e i Profeti hanno avuto più redattori e più redazioni.

La faccenda, con i dubitativi del caso, è questa. A luglio i giornali inglesi hanno dato una notizia. Anzi due notizie. Ricercatori dell’Università di Birmingham hanno scoperto frammenti di testo del Corano inseriti nelle pagine di un’altra copia del Libro, del VII secolo. Esperti dell’Università di Oxford hanno sottoposto all’esame del carbonio 14 l’antico manoscritto, ottenendone una datazione tra il 568 e il 645, anticipandola di molto a quanto supposto in precedenza. (Finora le copie più antiche erano quelle trovate nella moschea di Sana’a, databili a prima del 700 d. C.). L’altra parte di notizia è che una ricercatrice italiana (formatasi alla Cattolica di Milano), Alba Fedeli, ha riconosciuto in quei “due fogli inseriti in un altro manoscritto assemblato probabilmente nel 1572” alcuni brani del Corano. Ha inoltre scoperto un ulteriore frammento, più piccolo, finora registrato come “testo sconosciuto”. “Dall’analisi della scrittura – ha dichiarato – ritengo che anch’esso risalga al VII secolo, ma in questo caso non abbiamo effettuato la datazione al carbonio 14”. Insomma, almeno una parte del Corano potrebbe essere stata scritta prima della dipartita del Profeta, e non dopo. Bene che vada, per i fedeli di Allah, sarebbe l’indizio scientifico che almeno alcune parti dell’insegnamento divino trasmesso da Maometto erano già state messe per iscritto durante la sua vita. Male che vada, invece, che sarebbero addirittura antecedenti l’inizio della sua rivelazione nel 610 e proseguita fino alla morte.

ARTICOLI CORRELATI  “L’islam conquista l’Europa infantile”  “L’islam moderato non esiste”  Per una riforma (reale) dell'islam Alcuni giornali, anglosassoni e italiani, hanno forzato la mano titolando che sarebbe stato scoperto un “Corano scritto prima di Maometto”, il che, allo stato dell’arte, non è vero. Del resto non è nemmeno necessario sostenerlo, per comprendere l’importanza della scoperta. La prova del carbonio 14, è noto, non è sempre attendibile e il lasso di tempo indicato, da solo, non permette di stabilire un “prima” assoluto (quei fogli potrebbero essere datati al 640). Inoltre, come si è premurato di sottolinere Keith Small, consulente per gli studi coranici della Bodleian Library di Oxford, l’esame ha riguardato la pergamena, non l’inchiostro usato. E secondo lo studioso la calligrafia pare caratteristica di uno stile piuttosto tardo: potrebbe essere che quelle parole arabe siano state scritte dopo, su una pergamena vecchia. Fedeli ritiene invece che siano proprio la grafia e lo stile a retrodatare il testo: significherebbe, per lei, che era già scritto Maometto vivente. Più in là non si spinge. Questi i dati. Ma la cosa più interessante è forse prendere in considerazione l’ipotesi peggiore (per l’islam). Se un giorno si scoprisse che per scrivere il Corano sono stati usati anche testi sapienziali già esistenti, sarebbe la sconfessione dell’islam?

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Salto del cavallo. A un simile stress di radicale incredulità è stato sottoposto, da almeno due secoli, anche il cristianesimo. Se prendete un romanzo di recente successo come “Il Regno” di Emmanuel Carrère, vi spiegherà in modo piuttosto convincente che il Vangelo di Matteo è in molti punti frutto della penna inventiva di uno zelante cerusico ebreo ellenizzato, amico di Paolo. Se prendete un libro di cui nelle prossime settimane tutti i giornali vi parleranno, “Le ultime diciotto ore di Gesù”, di un esegeta alquanto sui generis come Corrado Augias, vi spiegherà la poca attendibilità dei Vangeli perché “qualunque storia è almeno in parte una bugia – o un sogno”. Ma basta prendere un libro da poco pubblicato di buona divulgazione accademica come “La nascita del cristianesimo” (Il Mulino) di Enrico Norelli, che insegna storia del Cristianesimo a Ginevra, e vi colpirà come un sasso la certezza data per acquisita, e dunque usata come chiave interpretativa, che i Vangeli sinottici si basino tutti su un testo precedente e perduto, “Q”, che, in buona sostanza, diceva tutt’altro. L’ipotesi che “Q” sia esistito, è scientifica e seria. Trattare tutti gli altri Vangeli come se fossero versioni apocrifiche di un primo e ineffabile messaggio perduto, è forse meno scientifico. Da due secoli abbondanti, i Vangeli sono stati sottoposti al setaccio del metodo critico scientifico. Obiettivo fondamentale: mettere in dubbio l’attendibilità della persona di Gesù, e dunque della sua religione. Il professor Ratzinger ha dedicato parecchio tempo del suo pontificato a scrivere i suoi tre tomi su “Gesù di Nazaret” esattamente per fare ordine in questo guazzabuglio di studi e riconciliare esegesi e ortodossia cattolica. Dell’ebraismo, la storia è anche più complessa. Per stare alla più banale delle nozioni liceali, basta ricordare la Bibbia dei Settanta, dal numero dei saggi che furono invitati ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo II Filadelfo per fare ordine tra varie versioni delle Scritture, tradurre in greco i Libri e produrre una versione dei Libri che oggi chiameremmo concordata, e che poi si diffuse in tutto l’occidente. Ma non è, quella, la sola redazione della Bibbia ebraica. La storia religiosa dell’ebraismo è del resto in larga parte un susseguirsi di interpretazioni di interpretazioni. George Steiner ha scritto che la Bibbia ebraica è divenuta addirittura la trama di fondo della letteratura occidentale, tanta è la sua capacità di rimanere se stessa, pur in mille rivoli interpretativi. Tutto questo ha distrutto le due religioni? Nel caso dell’ebraismo no, la complessità della storia ne costituisce anzi l’essenza, e ogni ebreo credente riconosce in quei Libri la parola rivelata di Dio. Nel caso del cristianesimo, paradossalmente, anche meno. Sapere che la redazione dei testi poi entrati nel canone cristiano sia stata opera multipla, geograficamente dislocata, a partire da appunti che le comunità sintetizzavano, si scambiavano e integravano con le testimonianze di prima mano degli apostoli o di altri “fratelli”, non fa in un certo senso che accrescere la credibilità del cristianesimo in quanto evento storico. Ma è anche vero che nemmeno i più accaniti critici del cristianesimo sono mai riusciti a negare che si tratti di testimonianze di fatti accaduti. Si può non credere alla Resurrezione, più difficile dubitare dell’esistenza di Pietro.

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Edward Cadbury era un buon quacchero, oltre che ricco imprenditore del cioccolato, e, da buon quacchero, sognava che il suo finanziamento per l’acquisizione all’Università di Birmingham di circa tremila manoscritti provenienti dal medioriente raccolti da un sacerdote caldeo, Alphonse Mingana, avrebbe fatto di Birmingham un grande centro per la ricerca sulle religioni. Il frammento del Corano in questione fa parte di quella collezione. Mai si sarebbe sognato, il buon Cadbury, che la sua opera avrebbe condotto a un tale punto nevralgico il dibattito sull’islam. Perché per il Corano può essere diverso che per la Bibbia e i Vangeli. A Birmingham vive una delle comunità islamiche più moderniste e integrate del Regno Unito. Si sono subito affrettati a dire che le scoperte che retrodatano il Corano sono benvenute. Mustafa Shah, della London’s School of Oriental and African Studies, ha dichiarato che “il manoscritto non farebbe che confermare la tradizione delle origini del Corano”. Mentre Shady Hekmat Nasser, dell’Università di Cambridge, ha sottolineato: “Sappiamo già dalle nostre fonti che il Corano era un testo molto antico. Quanto ora scoperto non fa che confermare le nostre fonti”. Ma per la maggior parte dei musulmani, tra cui i “riformati” salafiti o wahabiti, che interpretano alla lettera il testo riconoscendone sine glossa la sua origine divina, la faccenda cambia. Molti di loro, sappiamo, sono tra coloro che tagliano le gole agli infedeli, bruciano i libri degli altri e considerano blasfemi degni di morte coloro che toccano un Corano. Ma anche per il musulmano non fondamentalista ma nemmeno secolarizzato la faccenda può essere faticosa da digerire.

L’esegesi coranica è oggi è poco praticata (lo fu forse di più in passato) anche se alcuni, pochi, riformatori auspicano uno studio sensibile ai contesti storico-culturali del tempo e alle analisi narrative del testo. Anche per favorire un dialogo più sereno con la modernità, le scienze e la filologia ora assai problematico. C’è anche il problema, avvertito da qualcuno, di superare leggi e decreti che oggi non hanno più motivo d’essere e che sono però scritte nel Corano. Ma la rigida tradizione non lo permette, è ammessa solo la spiegazione o l’interpretazione fedele del testo. Il che, in una religione che non ha una gerarchia dottrinale riconosciuta, non è semplice. Anzi, le letture discordanti di questa o quella tradizione islamica hanno prodotto una sorta di fissazione del canone. Al di là di qualche entusiasmo da studiosi, anche solo la presa d’atto che il Corano è stato redatto in modo differente, o che addirittura Maometto abbia utilizzato testi sapienziali già conosciuti, produrrebbe una “riforma” dell’islam ben più drastica e dura da accettare di quella che il generale al Sisi ha indicato, con cautela, ai dotti studiosi di al Azhar.

Va anche notato che l’islam nel secolo scorso ha prodotto un’intensa attività interpretativa sul Corano, per alcuni studiosi non inferiore a quella dell’epoca medievale. Ma spesso il suo senso è stato un tornare alla purezza delle origini guidato proprio da un recupero letterale del testo, più che da una sua ermeneutica, proprio come reazione nei confronti della civiltà e cultura occidentali. Per Tom Holland, uno degli studiosi che hanno esaminato il Corano di Birmingham, la nuova datazione “destabilizza l’idea che noi abbiamo sull’origine del Corano e comporta delle implicazioni sulla storicità di Maometto e dei suoi seguaci”. Il testo di Birmingham è scritto in hijaz, l’antica forma di scrittura dell’arabo. Per David Thomas, docente di Studi cristiani e islamici a Birmingham, “la persona che lo trascrisse potrebbe ben avere conosciuto di persona il Profeta Maometto. E magari averlo sentito predicare”. Questo inficia il Corano? Alcuni studiosi musulmani ammettono che gli estensori materiali del libro sacro hanno tratto spunto anche da scritti antecedenti, tra cui quelli ebraici e cristiani. Ma dire che “i miei amici islamici, imam, teologi e non solo, sono tutti entusiasti”, come ha fatto Massimo Campanini, stimato docente di Studi islamici all’Università di Trento, è forse azzardato.

La questione è che cristianesimo ed ebraismo hanno un rapporto diverso col Libro. Certo, anche perché hanno dovuto incassare scoppole tremende dagli studi storici e scientifici, dai sette giorni della Creazione al pensionamento del sistema tolemaico. Ma li hanno superati, non solo attraverso una relativizzazione della lettera – il letteralismo ha provocato guai tanto al cristianesimo che all’ebraismo – bensì soprattutto perché i loro testi sacri rimandano ultimamente all’ineffabilità della nozione di Dio, ma non pretendono di esserne il dettato prescrittivo cui soltanto si deve aderire, senza margini di libertà nell’agire (anzi, la Bibbia è un continuo gioco-scontro tra due libertà asimmetriche). La validità delle religioni andrebbe vagliata dal loro insegnamento e dalle loro conseguenze, non dai loro testi immutabili. Ma il letteralismo per i musulmani è ben più radicato, e può essere costituzionalmente violento. Per il suo carattere sacro, non è possibile che alcun essere umano cambi qualche parola o significato del Corano. Il testo sacro è fondamentale nella conoscenza di Dio, nella pratica del culto e nell’atteggiamento pratico del fedele “sottomesso”.

Eppure il superamento del letteralismo – che potrebbe essere stimolato, ma i tempi non sono calcolabili, dal riconoscimento “obbligato” della formazione storica e stratificata del Libro – potrebbe essere una sfida liberatoria per lo stesso islam rispetto ai nuclei centrali della sua stessa concezione teologica. Come è avvenuto, attraverso percorsi tortuosi e non pochi tormenti, per le altre due religioni monoteiste. Sicuramente i musulmani, attraverso lo studio della critica testuale e dell’ermeneutica, dovranno convincersi del fatto che dopo la morte del Profeta l’islam conobbe per diverso tempo versioni raggruppate e diverse da quello che è il testo poi fissato dal califfo Uthman. E questo per l’islam è più difficile di quanto è stato per il cristianesimo dirimere l’attribuzione delle Lettere un tempo ritenute di Paolo. Ma non è detto che sia letale. Paradossalmente, le notizie di Birmingham potrebbero aprire un percorso virtuoso, senza destituire il Corano dal suo piedistallo di testo sacro di una religione. Ma può essere un percorso lungo e doloroso, come lo è stato per gli altri due monoteismi che, dalla loro parte, però, hanno il conforto di un rapporto con la storia che l’islam non ha. In attesa, parafrasando Platone, che si possa “con maggiore agio e minore pericolo fare la traversata”. Magari direttamente sottoponendo l’Onnipotente all’esame del carbonio 14.

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