Lettere al Direttore Foglio 30.4.2016

Verdini e i voti in meno del Pd. Speranza e i punti in meno del pil. Infiltrati per snidare i potenziali corrotti. Non vedo per quale ragione, allora, esso debba valere soltanto per gli eletti e non per i magistrati stessi

1-Al direttore - Fedez: affido a una start up tutti i miei diritti di autore. Poi dice che uno vota il bail-in.

Giuseppe De Filippi

2-Al direttore - Ringrazio il generale Mario Mori per aver spiegato con chiarezza ai lettori del Foglio la figura benemerita dell’agente infiltrato in un ambiente criminale. La figura dell’agente provocatore descritta da Piercamillo Davigo, infatti, mi era parsa piuttosto inquietante: “Negli Usa […] mi è stato detto che loro facevano il ‘test di integrità’. Dopo ogni elezione mandavano agenti di polizia sotto copertura a offrire denaro agli eletti. Quelli che lo accettavano venivano arrestati. Mi hanno detto che così, ad ogni elezione, ripulivano la classe politica” (la Repubblica, 10 aprile). Credo che gli avranno anche detto che negli Stati Uniti il reclutamento di giudici e pubblici ministeri è separato come la loro formazione professionale, che vi è una responsabilità politica (la possibilità di impartire direttive di carattere generale agli uffici dell’accusa) e che vige la discrezionalità dell’azione penale, ma tali quisquilie al neopresidente dell’Anm evidentemente non interessano. Ma ammettiamo pure che il “test d’integrità” sia un mezzo efficace per snidare i potenziali corrotti. Non vedo per quale ragione, allora, esso debba valere soltanto per gli eletti e non per i magistrati stessi. Se poi l’obiettivo di Davigo è più ambizioso, ovvero quello di moralizzare i costumi di tutta la società civile, perché – ad esempio – non offrire a ogni marito (invece di una mazzetta) un’avvenente signorina per saggiarne la fedeltà coniugale?

Michele Magno

2-Al direttore - Dice Speranza che “per ogni senatore in più di Verdini, il Pd perde migliaia di voti”. Bisognerebbe forse spiegare a Speranza quanti punti di pil perderebbe l’Italia nel caso, dio ci scampi, che la minoranza del Pd avesse la maggioranza in Parlamento.

Sebino Caldarola

Il Verdini di ieri, non male: “Non siamo in maggioranza e non siamo all’opposizione. Siamo in paradiso”.

3-Al direttore - Nell’epoca della fede ridotta più o meno a sentimento, non stupisce che ci sia chi, come ha ben documentato ieri Matteo Matzuzzi, spinga sul Vaticano affinché riveda la dottrina della guerra giusta in nome di un pacifismo che poco o nulla ha a che fare col Vangelo. Dalla vicenda dei Maccabei – le cui gesta sono narrate negli omonimi testi biblici (e sottolineo: biblici, cioè sacri) – ai cattolici della Vandea durante il terrore giacobino; dai Cristeiros in Messico (alcuni dei quali elevati agli onori degli altari da S. Giovanni Paolo II) ai cattolici della “Rosa Bianca” durante l’abominio nazista, per dire solo alcuni esempi, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia sa che ci sono stati momenti in cui i cattolici (e non solo) hanno sentito l’urgenza di “combattere la buona battaglia della fede” non solo con la testimonianza personale, la preghiera ecc., ma anche imbracciando le armi. Una delle migliori sintesi si trova a mio avviso in “Resistenza e resa”, opera di D. Bonhoeffer che raccoglie le lettere dalla prigionia del grande teologo e pastore evangelico impiccato dai nazisti nel carcere di Flossenburg. In una di queste, che dà il titolo al volume, Bonhoeffer dice: “Mi sono chiesto spesso dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino””. Per poi aggiungere: “…dobbiamo affrontare decisamente il ‘destino’ … e sottometterci a esso al momento opportuno”. Ecco la giusta prospettiva: resistenza: laddove vi sia una situazione di emergenza, e posto che spesso e volentieri l’inerzia è parente stretta della collusione, opporsi in modo fermo con tutti i mezzi, nessuno escluso. Ma, allo stesso tempo, resa: una volta che si sia fatto tutto il possibile, accettare quello che Bonhoeffer chiamava il “destino”, parente stretto del “sia fatta la tua volontà”, nella ferma e fiduciosa consapevolezza che, in fin dei conti, è Dio che governa la storia.

Luca Del Pozzo

4-Al direttore - E’ senz’altro vero che Renzi e Merkel abbiano alcuni interessi strategici comuni, come il Foglio del 29 aprile puntualmente scrive. Ma quell’“al di là delle divergenze sulla politica economica” non è questione che possa essere messa in una incidentale. Essa è il cuore dei problemi. Da tale questione, come ogni giorno si può constatare – dalle discussioni e dalle proposte che riguardano le banche e l’Unione bancaria, alla flessibilità, ai titoli pubblici, per non parlare del Patto di stabilità e del Fiscal compact – dipende molto degli altri  argomenti dei quali non é  in discussione il carattere fondamentale, pur senza con ciò  indulgere a una visione esclusivamente economicistica e senza negare l’importanza dei progressi che si possono compiere nell’affrontare questi stessi temi extra economici in maniera pragmatica. Ma di svolta vera si potrebbe parlare solo se si realizzassero convergenze effettive, strutturali sulla politica economica e di finanza pubblica, nonché sui temi bancari, pervenendo a modifiche significative degli ordinamenti comunitari: cosa tutt’altro che facile e prevedibile.

Angelo De Mattia

Renzi proverà a stringere un patto con Merkel ma Merkel, pur sapendo che a Renzi non ci sono alternative in questo momento in Italia, non si fida più di Renzi come un tempo, e questo, nei rapporti tra Italia e Germania, avrà un peso importante.

5-Al direttore - L’Europa non riesce più a decidere e lo dimostra la difficoltà dei 28 capi di Stato e di Governo nel trovare un accordo sull’immigrazione: oltre alla fiducia, mancano gli strumenti. La strada più ovvia sarebbe quella di una maggiore integrazione, ma ciò implicherebbe un’ulteriore cessione di sovranità, con il rischio concreto di alimentare sentimenti anti europei. E, infatti, i governi latitano. Che fare allora? Una soluzione ce l’avrebbe il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in un intervento all’Ambasciata tedesca di Roma lo scorso martedì è stato molto chiaro al riguardo: l’alternativa a “più integrazione” è “più regole”, a cominciare da quelle fiscali. Regole che, però, vanno rispettate perché finanze pubbliche fuori controllo rappresentano una minaccia concreta per la stabilità dell’area. Per Weidmann, quindi, la soluzione – almeno nel breve periodo – consiste in una maggiore disciplina di bilancio e non in una maggiore flessibilità come chiede l’Italia.  A dire il vero, a chiedere flessibilità ha cominciato proprio la Germania nel 2003, quando insieme alla Francia violò il Patto di Stabilità e Crescita nonostante l’opinione contraria della Commissione all’epoca presieduta da Romano Prodi. Uno strappo inaspettato che aprì la strada verso un ammorbidimento delle regole: il patto fu, infatti, riformato nel 2005 con l’introduzione del ciclo economico. Nel 2011, in piena crisi, il Patto fu di nuovo modificato, questa volta in senso opposto. Prevalse l’impostazione che la crisi fosse anche il risultato di regole troppo flessibili e così furono firmati il Six Pack, il Two Pack e il Fiscal Compact. Tuttavia, con il perdurare della recessione, fu evidente che i paesi avevano necessità di disporre di maggiori spazi fiscali. Nel gennaio 2015 la Commissione pubblicò, quindi, delle linee guida per specificare meglio se e come derogare – temporaneamente – dalle regole vigenti: il compromesso tra rigore e flessibilità sembrava raggiunto. Tuttavia, questa muova impostazione non sembra funzionare al meglio. Per almeno due motivi. In primo luogo, il processo decisionale è troppo lungo. La Commissione ci mette troppo tempo per dare il via libera all’attivazione delle clausole di flessibilità. Basti pensare che l’Italia, che ha fatto richiesta nell’ottobre dello scorso anno per circa mezzo punto percentuale di Pil di flessibilità (in aggiunta a quella già accordata nel luglio dello stesso anno), aspetta ancora una risposta da Bruxelles che dovrebbe arrivare solo a metà mese. Nel frattempo, si è trovato l’escamotage di fissare il disavanzo al 2,3 per cento, una via di mezzo tra il 2,2 per cento deciso a settembre e il 2,4 per cento che si avrebbe se tutta la flessibilità richiesta (inclusa quella relativa alla spese per i migranti) venisse accordata. Una scelta non priva di costi, perché obbliga il governo ad un “aggiustamento amministrativo” (il termine manovra è stato rottamato) e a dover gestire una situazione di incertezza (quante sono le risorse disponibili?). In secondo luogo, il processo decisionale non appare sufficientemente trasparente. Chi decide veramente sulla flessibilità? Bruxelles o Berlino come sostengono in molti? Non è un caso, infatti, se all’ultimo vertice italo-tedesco la Merkel ha dovuto precisare (cosa assai inusuale) che sulla flessibilità non è lei l’interlocutore istituzionale bensì il presidente Junker.

Per far fronte a queste ambiguità l’esecutivo comunitario dovrebbe fare uno sforzo per rendere le regole più chiare e i processi più trasparenti e veloci. Altrimenti, il rischio è che le decisioni di Bruxelles vengano percepite come il risultato di un processo non democratico, in cui alcuni paesi contano più degli altri. Proprio ciò che favorisce l’antieuropeismo.

Veronica De Romanis

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