Sogno su Salvini e domanda su Savoini. I voti regalati dal Pd alla Lega

Prendete un elettore, blanditelo con montagne di promesse e diventerà devoto. E’ il gioco dei demagoghi domestici,

Le lettere al direttore del 20 luglio 2019 www.ilfoglio.it

Al direttore - In questi giorni mi sono chiesto quale sarà il tono del discorso di Matteo Salvini alla Camera quando deciderà di intervenire sul Russiagate. E me lo sono immaginato così: “Ma poi, onorevoli colleghi, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate di una intercettazione – raccolta surrettiziamente – in un hotel moscovita bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se la Lega per Salvini premier non è stata che una guerra alle ong complici dell’immigrazione clandestina e non invece l’orgogliosa rivendicazione della propria sovranità da parte del popolo italiano, a me la colpa! Se il mio partito è stato un club di trafficanti di petrolio e gas russi, e non il difensore dei sacri confini della Patria, a me la responsabilità, perché questa rete di rapporti storici, politici e ideali con il presidente Putin sono stato io a crearla”. Lei che ne pensa, caro Cerasa?

Giuliano Cazzola

Savoini chi?

Al direttore - “Prendete un circolo, accarezzatelo e diventerà vizioso”, recita una surreale battuta di Eugène Ionesco. Parafrasandola, prendete un elettore, blanditelo con montagne di promesse e diventerà devoto. E’ il gioco dei demagoghi domestici, esperti in storytelling che manipolano sistematicamente i numeri della realtà nazionale. Basta scorrere l’ultimo report del centro studi Itinerari Previdenziali per averne un’idea. Ad esempio, ci ricorda che dal 2008 al 2018 abbiamo accumulato oltre cinquecento miliardi di nuovo debito, alla faccia dell’austerity impostaci dall’Europa matrigna. Ci ricorda, inoltre, che nello stesso decennio la spesa sociale finanziata dalla fiscalità generale è aumentata – e non diminuita – di quarantatré miliardi. Ci ricorda, ancora, che appena quattro cittadini su dieci pagano le tasse, mentre sei non solo non le versano, ma sono totalmente a carico della collettività – a partire dalla spesa sanitaria. Ci ricorda, infine, che poco più del 12 per cento degli italiani paga quasi il 60 per cento dell’Irpef, mentre il 46 per cento ne paga meno del tre per cento. Ora, se si vogliono ridurre le tasse solo ai percettori di redditi fino a 55 mila euro (il mitico ceto medio), è inevitabile tassare di più quel 12 per cento che traina l’economia nazionale. E’ vero che in questo aggregato di contribuenti ci sono i cosiddetti pensionati d’oro, bersaglio prediletto degli arruffapopolo. Senza però dimenticare che la metà dei pensionati prende sì assegni modesti, ma non ha mai versato un euro nelle casse dell’Inps. Che dire, poi, della storia degli oltre cinque milioni di poveri assoluti, ossia di coloro che non arrivano alla seconda settimana del mese, e dei nove milioni e mezzo di poveri relativi, ossia di quanti arrivano a malapena alla terza? Se un quarto della popolazione fosse davvero in questa condizione, allora avremmo dovuto vedere le piazze invase da orde di gilet (da noi) “gialloverdi”; così come ci saremmo dovuti aspettare una mole stratosferica di domande accoglibili per il sussidio minimo garantito (è ora di chiamare con il suo vero nome il reddito di cittadinanza, che è un’altra cosa). Del resto, nella narrativa populista l’evasione fiscale e il lavoro nero restano sempre sullo sfondo. Va tutto bene, quindi? Certo che no. Va male, anzi molto male. Anche perché la cultura economica di ambedue i partiti al governo è la stessa: una sorta di “keynesismo straccione”, per cui lo stato si indebita per mettere nelle tasche delle famiglie dei quattrini e aspetta che il famigerato moltiplicatore compia il miracolo. Una cultura, insomma, che non si preoccupa di come aumentare la ricchezza, ma solo di come redistribuirla (copyright di Luciano Capone e Alberto Mingardi). Salvini e Di Maio sono ormai ai ferri corti, e può darsi che il patto di potere da cui sono legati alla fine – con il premier Conte officiante – si spezzi. A sinistra c’è chi punta su questo scenario per riannodare i fili del dialogo col M5s, confortato dal suo voto favorevole per Ursula von der Leyen. Un progetto mai abbandonato in nome della realpolitik e di una presunta irriducibile diversità della filiale della Casaleggio Associati con la Lega. Ovviamente, differenze ce ne sono, sul piano dei valori e dei programmi. Ma forse proprio ciò che divide le due forze, e non soltanto ciò che le unisce, dovrebbe costituire una ragione in più per tenersi alla larga dalla prima.

Michele Magno

Più la sinistra darà l’impressione di considerare sotto sotto i grillini degli alleati potenziali con cui provare a sbarrare la strada a Salvini e più Salvini continuerà a prendere voti – e li prenderà anche da tutti coloro che anche da sinistra considerano il grillismo il virus politico più pericoloso del nostro paese.

Al direttore - Del Csm non si parla più sui giornaloni… e intanto all’Anm sono terrorizzati che esca un certo nome in un fatterello di cronaca spicciola… ma spicciola fino a un certo punto… dicono che manca solo quello per azzeccare una figura orrenda definitiva della categoria… infine… ciliegina sulla torta… continua il silenzio assordante di Pierbirillo uno che non era stato zitto praticamente mai.

Frank Cimini

Al direttore - Persone non serie che stanno provocando una crisi seria, per parafrasare l’azzeccato titolo dell’articolo di Giuliano Ferrara del 18 luglio, difficilmente subiranno una metamorfosi in tempi brevi diventando serie. Se, dunque, continua non più un feroce litigio tra i due presunti “arconti”, ma una situazione agonica (della legislatura) nella quale la quiete che poi brevemente di solito sopravviene o la pacificazione di facciata che si concorda non sono che la ripresa della “moritura” (legislatura), allora è molto meglio andare a nuove elezioni, con tutti i rischi possibili, anche quello (“quod Deus avertat”) dell’affermarsi della Truceria, come dice Giuliano. Se si guarda a questa fase per i rapporti con l’Europa e per le questioni economico-finanziarie – una parte soltanto di quelle in ballo – potrebbe essere vano tentare di evitare le elezioni per non accrescere l’incertezza e la confusione su quanto l’Italia deve fare nel suo primario interesse, ma nel contempo vivere costantemente con tali contrasti intragovernativi e nella mancanza di scelte politiche serie e adeguate. Mancherebbe, di questo passo, anche la speranza del sopravvenire di una salutare resipiscenza.

Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

Con riferimento all’articolo 28/7/2018 “Chi è l’oligarca russo che sbuca dal Russiagate (e fa il vino in Toscana)”, pubblichiamo la seguente rettifica trasmessaci dal Consorzio per la Tutela dei Vini Bolgheri doc.

 

 

 

In un passaggio del suddetto articolo, Bolgheri viene definito come “territorio di supertuscan, quei vini rossi, preparati volutamente in modo alterato” infondatamente riferita ai vini supertuscan prodotti nella zona di Bolgheri. La constatazione – sprovvista di qualsivoglia fondatezza – contrasta con la politica produttiva delle aziende associate al consorzio, con lo statuto dell’ente oltreché con quanto disposto dal disciplinare approvato. L’uso del termine “alterato”, inducendo in errore il lettore circa la genuinità del prodotto, costituisce giudizio lesivo dell’immagine del territorio di Bolgheri e delle aziende vitivinicole che vi operano”.

  

Pare necessario precisare che, nel breve passaggio dell’articolo di cui si narra nella rettifica, si faceva riferimento alla notoria circostanza in virtù della quale la preparazione dei citati vini si discosta dalle tradizionali regole toscane, e non certamente avanzare qualsivoglia negativa considerazione, anche attesa la specificazione immediatamente seguente nel detto passaggio, che definisce i medesimi vini “pregiatissimi”.

Per accedere all'area riservata