Liceo breve, ecco perché ha tutta l’aria di un pacco

Non aiuta a entrare prima nel mondo del lavoro. Non è una vera riforma che incide sui contenuti. Nessuno capisce a cosa servirebbe il liceo di quattro anni. Ma qualche sospetto viene

di Bruno Giurato 8 Agosto 2017 - 11:23 da  www.linkiesta.it

Dopo la laurea breve arriva anche il liceo breve. Il decreto è stato firmato dal ministro Valeria Fedeli, ed è già subito, al di là delle paginate esplicative sui giornali, aria di pacco per tutti.

Già l’idea di abbreviare i corsi di studi per portarsi alla pari con non meglio identificati “standard europei” aveva dato i suoi frutti amari con la “laurea breve”. Il famoso 3 + 2, introdotto nel 1999, è un pacco, certificato da tutti: dalla corte dei conti ad Almalaurea. Non aiuta gli studenti ad inserirsi nel mondo del lavoro. Non riduce il tasso di abbandono. Non funziona. È, appunto, un pacco.

Ministero e presidi già coinvolti nella primissima fase della sperimentazione assicurano che “non si tratta di una scorciatoia”. I dati, amaramente, confermano

E attorno al “liceo breve” in quattro anni invece di cinque, che verrà introdotto in forma sperimentale a partire da quest’anno in 100 scuole superiori, aleggia la stessa aura.

Innanzitutto non si capisce bene perché si voglia avviare questa variazione curriculare.

Ministero e presidi già coinvolti nella primissima fase della sperimentazione assicurano che “non si tratta di una scorciatoia”. I dati, amaramente, confermano. In Italia diplomarsi NON aiuta a trovare lavoro: nel 2014 i diplomati tra i 20 ed i 34 anni che in Italia erano riusciti a trovare lavoro erano appena il 45% contro il 76% del resto d’Europa.

Avete ragione, cari ministero e presidi. Come scorciatoia per entrare nel mondo del lavoro (secondo l’ottimismo della volontà) o del precariato (secondo il pessimismo della ragione) proprio non ci siamo. Sarà un pacco.

Ma il vero motivo, a detta dei liceobreventusiasti, sarebbe altrove. Lo leggiamo sul Corriere della Sera. Si tratterebbe di un’occasione per sviluppare una “didattica innovativa”. E quindi basta con le odiose e gerarchiche “lezioni frontali”, e spazio alle lezioni in cui gli studenti partecipano attivamente. Via alla “compattazione” (quattro discipline nel primo quadrimestre, altre quattro nel secondo) e via all’uso più deciso del Clil, l’insegnamento delle materie in altre lingue.

Ora, su molte delle innovazioni proposte ci sarebbe qualcosa da dire: l’insegnamento in altre lingue è lodevole (in molti casi) se si investe sulla formazione degli insegnanti, ma a quanto pare non è stato fatto.

 

L’idea dei lavori “di gruppo” sembra un lascito avvizzito della sociologia anni 70. L’idea di moltiplicare l’”offerta formativa” estendendosi a nuove competenze sempre più proiettate nel futuro fa venire fuori l’anima reazionaria quasi a chiunque: viene da ricordare che siamo un paese ad altissimo tasso di alfabetizzazione (segno che le scuole primarie fanno il loro mestiere) ma con percentuali scandalose di analfabetismo funzionale. Reazionaresimo per reazionaresimo, e “competenze” per “competenze” verrebbe da chiudere la faccenda dicendo che non sarebbe male se gli studenti delle superiori ne uscissero sapendo fare bene i riassunti.

 

E comunque, ancora, non si capisce perché queste innovazioni avrebbero bisogno del liceo breve per essere messe in opera. Perché in cinque anni no, e in quattro sì? Mistero. Mistero, e aria di pacco.

Viene da ricordare che siamo un paese ad altissimo tasso di alfabetizzazione (segno che le scuole primarie fanno il loro mestiere) ma con percentuali scandalose di analfabetismo funzionale

In generale, la tensione e la schwarmerei “innovativa” se non accompagnata da un corposo piano di investimenti sembra una qualche forma più o meno graziosa di incartare torroni (o pacchi).

Anche perché, investimenti per investimenti, c’è il sospetto che il vero motivo dell’introduzione del liceo breve sia di natura economica. Non è certo che le coperture finanziarie per le assunzioni di nuovi docenti (partite in questi giorni) durino a lungo.

È in arrivo per il 2018 una ondata di pensionamenti tra gli insegnanti. E allora meno anni di scuola, meno alunni nelle scuole, meno necessità economiche nel medio periodo. Il sospetto c’è. E l’aria di pacco pure.

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