Altro che dittatura dei robot: nella fabbrica del futuro l’uomo è finalmente al centro

La Nuova Chiave a Stella di Edoardo Segantini riprende un tema caro a Primo Levi, la possibilità di amare il lavoro e realizzarsi attraverso di esso,

di Fabrizio Patti 25 Novembre 2017 - 07:45 www.linkiesta.it

e cerca di capire se il concetto rimane valido nell’industria 4.0. La risposta è totalmente positiva e 14 storie lo testimoniano

«Un muro ben fatto, ecco la felicità». Così si intitolava un’intervista che Primo Levi, nel 1984, tre anni prima della sua morte, concesse a un giovane cronista dell’Unità, Edoardo Segantini. L’autore di Se questo è un uomo sul lavoro aveva riflettuto molto. Ne Il sistema periodico aveva parlato della propria professione di chimico, fatta di grandi e piccole sfide sul lato tecnico e personale, e delle relative delusioni e soddisfazioni. Poi, nel 1978, era arrivato La Chiave a Stella, in cui si raccontava la storia di un tecnico, Tino Faussone, impegnato a montare un grande impianto in Sudamerica. La tesi del libro, nell’Italia post-’68, fece scandalo: “Il lavoro può dare la felicità”.

Trentatrè anni dopo quell’intervista si ritrova alla fine di un libro dello stesso Edoardo Segantini, intitolato significativamente La Nuova Chiave a Stella (Guerini e Associati, collana Guerini 4.0). È il 2017, la quarta rivoluzione industriale ha preso piede e da qualche anno ricade sotto l’etichetta di Industria 4.0. Gli studiosi e le persone comuni si interrogano su cosa rimarrà delle proprie professioni. Vediamo robot fare capriole all’indietro, robot che spostano scaffali nei magazzini di Alibaba e Amazon, società, quest’ultima, dove i lavoratori dutante il Black Friday del 2017 scioperano e denunciano condizioni di fatica che sembravano proprie di altri tempi. L’intelligenza artificiale, nella duplice veste di machine learning e sistemi integrati di visione e interazione con l’ambiente, minaccia di tagliare non solo i colletti blu ma anche moltissimi colletti bianchi. Urge quindi trovare delle risposte su quello che sarà il nostro futuro.

E Segantini molte risposte le dà da bravo cronista: limitando il carico di citazioni teoriche e raccontando le storie di chi in questa rivoluzione c’è già immerso. La conclusione, come vedremo, è altrettanto disarmante di quella di Levi nel 1978: il lavoro non solo può dare la felicità ma la nuova fabbrica - che poi spesso è più laboratorio di ricerca - mette ancora più che in passato al centro l’uomo. È una “fabbrica umanizzante”, in cui a cambiare, più della tecnologia, sono i modelli organizzativi, in cui la personalizzazione spinta delle produzioni passa attraverso un ruolo attivo e propositivo dei lavoratori. In cui le sfide intellettuali non si fermano ai piani alti ma si estendono anche all’“operaio aumentato”, che può o deve essere “creativo, coinvolto, responsabile”. Nelle sue storie Segantini incontra persone dai ruoli diversi, imprenditori, manager, operai, team leader, sindacalisti, e trova delle caratteristiche comuni alle persone sentite: sono tenaci, vogliono migliorarsi, amano studiare e lavorare, sono ambiziosi ma socievoli, credono nel singolo ma anche nella forza del gruppo, hanno rispetto della dignità propria e degli altri, rispettano gli impegni e provengono da ambienti familiari culturalmente aperti.

Siamo molto lontani dai cliché angoscianti di Tempi Moderni di Charlie Chaplin. Anche se le domande che rimangono aperte sono notevoli. Due su tutte: quanto durerà la transizione dalla disoccupazione di massa che ci attende a una nuova e diversa occupazione? E: quale limite sopporteremo per le diseguaglianze, la «vera vergogna del nostro tempo»?

È ancora valida, ai tempi dell’Industria 4.0, l‘idea di Primo Levi che il lavoro possa dare la felicità? La conclusione di Segantini, dopo aver raccontato 14 storie e girato decine di aziende è positiva, perché la nuova fabbrica mette ancora più che in passato al centro l’uomo

In questa chiave è particolarmente di attualità il capitolo dedicato ad Amazon e al suo centro di distribuzione di Castel San Giovanni (Piacenza). È uno dei rari casi in cui si avverte una certa distanza del cronista da quel che vede. Ma il giudizio, come sempre, è preceduto da una descrizione oggettiva dell’ambiente. Si parte da come concretamente è gestito il centro, dal suo “caos organizzato” e si arriva a parlare di come dei cambiamenti siano in atto anche sul fronte del lavoro. In un’azienda tradizionalmente verticistica e allergica ai sindacati, da un anno a Piacenza i sindacati sono entrati e dei risultati, come l’allungamento delle pause, li hanno ottenuti. Dalla descrizione si capisce di più lo sciopero dei giorni scorsi, perché si inserisce in un percorso costruttivo in cui l’obiettivo dei sindacati è di ottenere, tramite un contratto integrativo aziendale, un premio aziendale proporzionato alla crescita, un minore logorio fisico e stress e una migliore organizzazione dei turni. Si lancia anche uno sguardo sul futuro prossimo, perché in un nuovo centro vicino a Roma si stanno sperimentando dei nuovo “cobot”, robot collaborativi che supporteranno i lavoratori limitandone la fatica fisica.

Partire dai casi concreti è d’altra parte la cifra del libro. Il viaggio che porta a ottenere le risposte alle domande sul futuro che ci aspetta comincia non in uno studio di un professore ma in un tinello di una casa di una giovane coppia in provincia di Novara. Lei, Serena Barbieri, 28 anni, è ingegnere meccanico all’Avio Aero di Cameri (Novara), azienda del gruppo americano General Electric. Si progettano e si realizzano le pale per le turbine degli aerei Boeing, attraverso il processo di additive manifacturing, la versione industriale delle stampanti 3D che serve a realizzare non prototipi ma prodotti finiti, attraverso l’uso di polvere di titanio-alluminio. Di Serena, come di ogni altro personaggio (ogni capitolo è intitolato con il nome proprio dei protagonisti) veniamo a conoscere con poche pennellate l’aspetto, il carattere, il modo di stare al mondo e in azienda. Quello di Serena è uno dei più interessanti e meno battuti in Italia: un contratto che permette di lavorare quattro giorni alla settimana e di dedicare il quinto a un master di secondo livello finanziato dalla società in collaborazione con il Politecnico di Torino.

Siamo molto lontani dai cliché angoscianti di Tempi Moderni di Charlie Chaplin. Anche se le domande che rimangono aperte sono notevoli. Due su tutte: quanto durerà la transizione dalla disoccupazione a una nuova e diversa occupazione? E: quale limite sopporteremo per le diseguaglianze, la «vera vergogna del nostro tempo»?

Ci sono però molti modi di arrivare in azienda e di trovare la strada verso la propria realizzazione. Raramente le storie sono percorsi lineari. Filippo Quaranta della Magnetto Automotive, è tra quelli che più affascinano l’autore, riassumibile nella sua frase «C’è un Faussone in ognuno di noi». Impegnato a organizzare verso i principi dell’industria 4.0 un’azienda dell’indotto Fca, è un “laureato clandestino”, cioè una persona che a suo tempo ha scelto di non comunicare all’azienda la propria laurea in fisica, ottenuta per puro appagamento intellettuale, lo stesso che gli viene dalla musica.

Catia Cuzuma è una giovane donna rumena che, dopo molte delusioni lavorative in occupazioni di basso livello in Italia, trova un riscatto attraverso due lauree e un ruolo nel sindacato che la porta ad accompagnare piccole imprese verso la modernizzazione. Marta Anzani, terza generazione di proprietari (con altre parti della famiglia) della nota azienda di arredamento Poliform, racconta dell’importanza di una formazione culturale quanto mai aperta, fatta di poca economia e tanta filosofia. E racconta lo speciale connubio che nelle imprese italiane si tenta di ottenere tra tecnologia e manualità; nei mobili come nelle scarpe della Sergio Rossi raccontate poco dopo nel libro.

Di Giorgio Cuttica, anima della Genova che innova e riflette sul futuro, emergono il carattere e lo spirito che lo hanno portato, dopo un percorso di successo prima come imprenditore poi all’interno del gruppo Siemens (che aveva rilevato la sua impresa) alla creazione di Sedapta, una società di “Internet of services” che fornisce soluzioni a molte grandi imprese industriali. Non è l’unico caso di questo tipo di servizi. Si parla anche della Dallara e dei suoi ormai mitici giovani ingegneri che, chiamati dal numero uno Andrea Pontremoli, hanno spinto al massimo la capacità di simulazione delle condizioni delle auto su strada e pista, risultando indispensabili per colossi dell’auto di tutto il mondo (la storia è stata raccontata in precedenza su Linkiesta).

Tra gli squarci che aprono speranze maggiori per il futuro c’è il racconto della Comau, attraverso la responsabile delle risorse umane Donatella Pinto. Il suo è il racconto di come la robotica possa diventare “popolare”, così come negli anni Ottanta i computer lasciarono i laboratori e diventarono “personal”, entrando in ogni casa. In questa narrazione si citano i progetti avveniristici sugli esoscheletri e il piccolo robot Edo, didattico e antropomorfo: già sperimentato nelle scuole piemontesi, «aiuta gli allievi a imparare in modo originale materie scolastiche come la matematica e l’arte, assiste gli insegnanti, stimola le capacità di apprendimento». Ma ci sono anche i percorsi di formazione, ad alto livello e nelle scuole, come nel caso dei corsi che assegnano agli studenti delle superiori il “patentino della robotica” (un percorso che arriverà in tutta Italia anche grazie alla casa editrice Pearson).

Tra le storie raccontate c’è anche quella di Amazon. È una descrizione dei processi tecnici e organizzativi che fa capire l’evoluzione in atto, dovuta anche all’ingresso dei sindacati. Sono pagine utili per capire lo sciopero nel giorno del Black Friday 2017

Tra tutti gli ambienti descritti, tuttavia, quello che più affascina l’autore è la nuova fabbrica di Fca a Cassino. Ci sono i suoi impressionanti 1.300 robot della sola unità di lastratura, ma ci sono anche le soluzioni ergonomiche per gli operai, le piattaforme mobili skillet e soprattutto c’è la struttura organizzativa - raccontata attraverso gli occhi di una “team leader” - che ha portato su livelli d’avanguardia mondiale i principi del World Class Manufacturing, ispirato al modello Toyota.

Segantini, d’altra parte, quel modello lo ha visto nascere. Il libro si apre con il ricordo di un viaggio in Giappone (assieme al collega Marco Borsa, mai rimpianto abbastanza, e a un gruppo di imprenditori) nel 1989, alla scoperta di Toyota, Daikin e delle altre imprese che applicavano il processo di manifattura agile, fatto di ambienti puliti e dove gli operai lavoravano “meglio e in condizioni migliori” e con molta più produttività rispetto alle fabbriche occidentali. I colori bianchi, la mancanza di rumori e odori e la razionalità di quei luoghi colpirono Segantini che oggi li ritrova in molte realtà italiane e li descrive in modo coinvolgente, rendendo omaggio al pittore di cui condivide il cognome.

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