Abbandonate il femminismo stantio della Maraini. Leggete Isabella Leardini, che canta l'amore nell'epoca delle belve

Il bastone e la carota: due libri a settimana, uno raccomandato e uno sconsigliato.

di Davide Brullo 1 Dicembre 2017 - 07:35 da www.limkiesta.it

“Tre Donne” di Dacia Maraini è un romanzo di donne che agognano di farsi trombare dai maschi, ma che stanno bene da sole. “Una stagione d'Aria” ci regala il respiro della poesia con delicatezza

Il bastone. Delle tre donne la più arzilla è Gesuina, sessantenne piena di voglie, che giudica gli uomini dal culo – è brava a fare le punture – si fa mettere la lingua in bocca da Simone, il fornaio, “polsi grossi, pelosi, sopracciglia folte, naso romano, sorriso dolce”, che però è impotente, e quando vede “i due infermieri, Alessia e Angelo” che trombano sul letto della figlia in coma, fa spallucce, “l’amore è vita”, dice, felice. Maria, che a pagina 178 è la quarantenne in coma, nelle pagine prima stava traducendo Madame Bovary e si faceva trombare, quando il tipo piglia le ferie, da François, francese, ribattezzato “il bellissimo François” oppure “il bel François”. Già che c’è, “il bel François”, in un momento di estasi, si tromba la terza di queste Tre donne, Lori, sedici anni, la figlia di Maria e la nipote di Gesuina, nell’appartamento del ragazzo di lei, Tulù, che a scopare è un imbranato (così ci dice l’assatanata e freudiana Lori: “fatto l’amore con Tulù, ma così così, non sembra che ne ha molta voglia, ho sentito dire a scuola che gli piacciono i ragazzi, ma sarà, a me sembra colo uno che ha paura di lasciarsi andare”). Quando Maria scopre che la figlia è incinta dell’uomo della sua vita – il marito è svanito un bel po’ di anni prima – inghiotte farmaci a go-go e va in coma. Tranquilli, come in tutte le favole più ovvie e stucchevoli, anche qui c’è l’happy end. Se non fosse che ad aver scritto il romanzo è Dacia Maraini, figlia di cotanto Fosco, la cariatide della letteratura italiana, questo romanzo, un happy hour che mescola il trattato femminista fuori tempo massimo alla fiction Un medico in famiglia, semplicemente non sarebbe stato pubblicato. Perché? Per tre ragioni sostanziali. Primo. La trama. Di fatto, non succede nulla. L’unico evento capitale del romanzo – la figlia incinta del tipo che si tromba la madre – è trattato superficialmente, come il tè preso alle cinque, come una chiacchiera condivisa tra vecchie sufficientemente ricche, in pensione da una vita, che speculano sul talento di Flaubert come sulle tette di Belen, è uguale. Secondo. La tesi. Ancora una volta si batte sempre lì, sul ferro da stiro arrugginito del femminismo. Donne che agognano di farsi trombare dai maschi, ma che stanno bene da sole. I maschi smutandati dalla Maraini sono – macchinosamente, inverosimilmente – tutti scemi, irresponsabili, senza palle: il fornaio impotente, il tizio frustrato dalla vita familiare che fa il sessomane sulla chat, l’edonista impenitente che si fa la ragazzina salvo poi disinteressarsi del futuro pupo, l’infermiere tatuato – Angelo, quello che si trombava la collega sul letto di Maria in coma – che ha moglie e figli e alla fine del libro, già che c’è, si fa massaggiare l’arnese dalle neo ragazza madre, Lori. Il tutto, in una frittura di frasi banali, come questa: “dovrei difendere con più forza la libertà dell’amore che non conosce età”, buone da spendere durante una puntata di Uomini e donne. Terzo. Il linguaggio. L’unica possibilità per salvare un romanzo privo di trama e di idee è il linguaggio, la forma. Mimare la lingua di tre donne che hanno pensieri e pulsioni diverse. Una sfida romanzesca audace. Che la Maraini, guardando l’umanità dal loft del tempo perduto, non è riuscita a risolvere. Non bastano soluzioni grammaticali sibilline come “ci scrivo pure”, “sciò!”, “dove cavolo”, per simulare il parlato di una ragazzina; ma quale ragazzina, oggi, scrive frasi come “la gravidanza è stata dura, odiavo questo figlio che mi faceva patire”? Patire, ma vi rendete conto? Forse Dacia ha retrodatato la cronologia grammaticale, forse così poteva scrivere Jane Eyre, anzi no, Charlotte Brontë è molto più contemporanea della Maraini. Insomma, alla fine nonna, mamma e figlia gravida parlano tutte, tranne insostanziali e inautentiche variazioni, allo stesso modo. Un dramma. Qualsiasi gallina dalla penna d’oro allevata nella polleria Holden di Baricco saprebbe scrivere un romanzo migliore di Tre donne. Il che mi fa concludere con un sonoro happy end – anch’io sono colto dal virile buonismo della Maraini – per la letteratura italiana attuale. Di solito bestemmiamo sui bastardi tempi di oggi perché ciò che è passato è sempre migliore. In letteratura non è così. La Maraini è la mummificata dimostrazione che il romanzo degli ultimi cinquant’anni, quello appiattito al ‘realismo socialista’ italico, quello prostrato alle leggi di mercato, è deperibile, è deperito, è uno schifo. Evviva. C’è un mare di roba da scrivere, risolleviamo il romanzo italiano dal morso dei ruderi, diamoci una mossa.

Dacia Maraini, Tre donne, Rizzoli 2017, pp.208, euro 18,00

La carota. Ne ha fatta di via e di vita. Ed è stata zitta per 13 anni. 13 anni per uno scrittore sono un’eternità: se non ha un applauso oggi, almeno sogna il Premio Strega domani. Il poeta, invece, se ne fotte delle circonvoluzioni del tempo e delle circostanze del presente, è il segugio dell’ispirazione. Isabella Leardini, ostinatamente fedele alla propria voce, ha scritto un libro ‘benedetto’ da Milo De Angelis nel 2004, La coinquilina scalza, e ora se ne torna con un altro, 13 anni dopo, Una stagione d’aria. Nel mezzo, tanti riconoscimenti: la traduzione in francese (nell’antologia Les Poètes de la Méditerranée), la presenza nei Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012), la traduzione, quest’anno, in spagnolo. In cima, l’idea di Parco Poesia, “il festival della poesia giovane”, che va avanti dal 2003 – ma l’edizione ‘zero’ accadde nel 2002 – accade a Rimini e ha ospitato i massimi lirici del Paese. Circostanze. La forza lirica della Leardini sta nel cantare l’amore nell’epoca del disamore, nel mescolare lo Stilnovo alla fioreria pop, nell’osare la parola innamorata nell’era delle belve. Così, versi docili, semplici, spesso memorabili (“Sono nata a pugni chiusi/ e a pugni chiusi/ rimango a fare muro alle stagioni”), facilmente ‘giovanilisti’ (“Vieni in vacanza qui come fa il vento/ che scardina l’estate”), ma in realtà un po’ rétro, con tanta sapienza dentro (Vittorio Sereni come totem, e poi il primo Caproni e poi Dante, Cavalcanti…), trasmutano il clangore dei sentimenti in acqua buona da bere. In mezzo, intarsiati alle estate riccionesi, tra stagioni perdute e voracità di vita e di bolle di sapone, alcuni versi sapienziali (“l’amore è lo scempio più veloce”), che azzannano, che fanno della Leardini una specie di Cassandra che fa la faccia turchina in riva al mare, una specie di Alda Merini votata ai dolori della gioia. Il verso più bello è questo: “Devo sapere che nessuno muore”, incorruttibile perché candido, di devota ingenuità. Per capire l’amore, il moto infantile (“Vorrei dire che dirò per te/ quel che nessuno ha detto per nessuno”) e quello ferino, l’amore che c’è perché è il crepitio dell’assenza, leggete Isabella. I suoi versi sono frontiere di carta contro l’ovvietà sentimentalista della Maraini.

Isabella Leardini, Una stagione d’aria, Donzelli 2017, pp.86, euro 13,00

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