Chi l'ha detto che Raffaello deve piacere a tutti? Chiedere a Roberto Longhi

“Un illustratore grafico piu’ che un pittore”, scrisse il critico d'arte nel 1914

MATTEO MARCHESINI 27 SET 2020 ilfoglio.it

“Un illustratore grafico piu’ che un pittore”, scrisse il critico d'arte nel 1914

RAFFAELLO ROBERTO LONGHI

"Non posso dilungarmi di più su Raffaello che, voi l’avrete ormai compreso, non fa parte precisamente della schiera dei puri pittori ma degli illustratori grafici di ideali di vita. La sua è letteratura figurata non pittura…”. A scrivere queste parole, nella calda estate del 1914, è un professore ventenne che prepara una “Breve ma veridica storia della pittura italiana” per i suoi studenti dei licei di Roma. Malgrado quel professore si chiami Roberto Longhi, e malgrado la modernità sia stata poco generosa con il pittore della Scuola di Atene, ancora oggi un giudizio così sprezzante fa sobbalzare il lettore, tanto più che è espresso come se si trattasse di cosa scontata, su cui non vale la pena insistere. Nel 2020, a cinquecento anni dalla morte di Raffaello e a cinquanta da quella di Longhi, il calendario ci offre una buona occasione per spiegare come uno dei massimi simboli del nostro Rinascimento artistico sia divenuto agli occhi del massimo critico d’arte del nostro Novecento la sineddoche di tutto ciò che andava rifiutato.

Longhi scrive la sua breve storia sotto la suggestione del futurismo e del cubismo. Come Walter Benjamin interpreta il barocco a partire dall’avanguardia, così il giovane studioso italiano legge il passato col filtro di quelle novità sconcertanti. Anche lui considera le opere delle monadi, e le organizza in costellazioni che tagliano trasversalmente le epoche: nella sezione di “Idee” con cui apre il suo compendio incendiario definisce lo stile lineare (da Simone Martini ai giapponesi), lo stile plastico (di Giotto, di Masaccio), lo stile che privilegia la forma e quello che privilegia il colore, ma soprattutto la “sintesi prospettica di forma e colore” che ritrova sia in Piero della Francesca sia in Cézanne. Longhi però è un avanguardista sui generis: non cerca il frammento ma l’organicità. Pretende una “assolutezza imperiosa”, e s’infuria davanti ai sincretismi. Per lui un grande pittore può essere unilaterale, tutto disegno o tutto colore, oppure fare una sintesi: l’importante è che un carattere non contraddica l’altro, cioè che i vari aspetti siano subordinati a un’unica legge. Da questo punto di vista anche Leonardo gli appare troppo incerto, perché regala alle figure una psicologia e una bellezza che esorbitano dalle necessità pittoriche, chiamando in causa non gusti ma “affetti e simpatie”. Un suo angelo, dice argutamente Longhi, “ci piacerà o no a seconda che ci piacerebbe o meno incontrato nella vita”.

Quanto a Raffaello, psicologo più “grossolano”, i suoi spazi non si trasformano in un’architettura essenziale ma rimangono meri alloggi per i personaggi, così come il disegno, anziché essere un “valore assoluto”, gli serve appena a nobilitarli. Il caso limite è quello dei fiamminghi, che con minuzioso realismo insistono sui dettagli senza sviluppare una visione d’insieme. Nella sua furia riduzionistica, il critico condanna tutto ciò che è eterogeneo e insegue una compattezza senza scampo. Di qui la sua ammirazione per Giorgio Morandi e la speculare avversione per Giorgio De Chirico, che in una recensione del 1919 intitolata “Al dio ortopedico” descrive come il prototipo moderno della letteratura figurata. Secondo Longhi i migliori artisti sono “indifferenti al soggetto”, mentre De Chirico, pittore dozzinale, punta solo sulle sue “favole strane”, ispirate agli scritti del fratello Alberto Savinio. E Savinio, che di lì a poco diventerà a sua volta un pittore “letterario”, si lega la stroncatura al dito. Vent’anni più tardi, constatando che purtroppo non si apprezzano più i maestri “articolati” come Raffaello, vedrà nell’entusiasmo per i primitivi e nella giottomania diffusa un lasciapassare per gli artisti analfabeti, e accuserà di queste mode “Roberto Longhi, pittore e scrittore mancato” che “a parte alcune date e alcune attribuzioni, di arte non capisce un cavolo”. Il fatto è che l’autore di “Hermaphrodito” ha bisogno esattamente di ciò che disgusta il critico, cioè di uno spazio in cui le sue sagome possano oscillare libere e birichine senza venire costrette nella camicia di forza di una forma totalizzante. Savinio contro Longhi significa l’analisi contro la sintesi, il dilettantismo leonardesco contro l’ossessione, la prosa corsiva e sciolta contro una scrittura antiquaria e barocca, quasi da officina pittorica ferrarese.

Nella “Storia”, però, le esigenze didattiche tolgono a questa scrittura parecchi vezzi. La rendono più avvincente, per un fenomeno simile a quello che rende più avvincenti le indagini di Giacomo Debenedetti quando dallo stile dei saggi brillanti vengono trasferite nei quaderni delle lezioni universitarie. Il manuale del ’14 mostra a nudo l’etimo del pensiero longhiano. Cesare Garboli lo ha definito benissimo osservando che Longhi è insieme un idealista assoluto (l’ordine dell’arte è irriducibile al caos della vita, alla storia extraestetica) e un materialista assoluto (il quadro è un puro oggetto fisico spogliato di ogni riferimento culturale). Questi due opposti estremismi convergono nella cancellazione di ciò che è per eccellenza umano: la biografia, il sentimento, la psicologia, la memoria, le tradizioni della civiltà. Le equivalenze verbali del critico traducono un’esperienza estranea alle parole. Oggi che torniamo a sovrapporre arte e vita, e che scambiamo subito l’opera concreta con un fantasma da cultura generale, Longhi non può non sembrarci lontanissimo; ma siamo distanti anche dai giochi anarchici e dalla democrazia mentale dei fratelli De Chirico. Non parliamo poi dei nobili ideali che perfino il professore iconoclasta riconosceva a Raffaello. Sono tutti linguaggi muti, che aspettano un nuovo traduttore.

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