Così anche l'arte (libera) s'è messa paura

Revisionismo iconoclasta e autocensura. Il caso della grande mostra di Philip Guston che quattro grandi musei hanno deciso di annullare per timore delle reazioni del pubblico. Opere di 50 anni fa, contro il Ku Klux Klan

FRANCESCO STOCCHI 29 SET 2020 ilfoglio.it

PHILIP GUSTON ARTE MUSEI

Temiamo che questa volta si sia veramente esagerato. Il grande critico Robert Storr ha sintetizzato il fatto così: “Un abietto fallimento dell’immaginazione e dei nervi”. Il “caso” Philip Guston. Navighiamo in un periodo storico interessantissimo, fatto di correzioni linguistiche, revisionismi e iconoclastie, reazioni sui libri, nei social, a tavola e per la strada. Un periodo che per certi versi mette sotto ricatto l’identità culturale autoctona, per altri invece rappresenta una necessità nei confronti di una giustizia assoluta, diffusa e incondizionata. In un continuo aggiornamento tra definizioni linguistiche e identitarie (troppo complesse e misteriose da sfuggire continuamente alle regole della semantica), ci troviamo instabilmente in bilico tra un bisogno di eguaglianza sociale e il riconoscimento di differenze minoritarie. La chiamano la “guerra culturale”.

Nel mondo dell’arte, quindi in senso più esteso nell’amministrazione della lettura critica delle immagini nel nostro tempo, ci si domanda quanto importante sia il ruolo che l’arte può o dovrebbe svolgere. Molti vorrebbero che l’arte diventi strumentalista, eludendo ciò che l’arte significa per le persone che la amano, la studiano o ne hanno veramente bisogno. Le sue ambiguità, i suoi misteri senza soluzione offerti al pubblico, le sue contraddizioni, la sua non-linearità, il suo bisogno di non omologarsi al pensiero comune per riuscire a sopravvivere, la bellezza e il dolore e la memoria che l’arte ci offre per sentirci parte di una stessa specie. Negli ultimi anni, i programmi dei musei (dagli Stati Uniti muovendosi progressivamente verso est) si sono radicalmente modificati, le sottigliezze si sono accresciute, l’attenzione si è presto trasformata in timore di sbagliare. Termini quali inclusività appaiono in ogni comunicato stampa e i curatori sentono sempre più la responsabilità di fare delle proprie mostre uno specchio della cronaca attuale. Il pubblico viene sempre maggiormente considerato nelle sue varie sensibilità e nei diversi modi comprendere, ma ci deve essere presa di posizione del proprio ruolo altrimenti la considerazione del pubblico si confonde con poca fiducia, o magari con la paura.

Qualche giorno fa, la National Gallery di Washington ha silenziosamente pubblicato una dichiarazione congiunta firmata dai direttori di tutti e quattro i musei destinati a ospitare la mostra “Philip Guston Now” (National Gallery, Tate Modern, Mfa Boston e Mfa Houston), annunciando la decisione di spostare la mostra “fino a un momento in cui pensiamo che il potente messaggio di giustizia sociale e razziale che è al centro del lavoro di Philip Guston possa essere interpretato più chiaramente”. Si parla di un rinvio di quattro anni, de facto una cancellazione, pensiamo maliziosamente. Sebbene il comunicato non specifichi quali aspetti della mostra si sono improvvisamente rivelati così inadatti e pericolosi, un rappresentante della National Gallery ha dichiarato ad ArtNews che gli organizzatori hanno sollevato preoccupazioni per i dipinti che presentano figure incappucciate del Ku Klux Klan, per il timore turbassero il pubblico, evidentemente considerato incapace di leggere, capire e interpretare un’immagine.

Se Francesco Bonami nel 2003 titolava la sua Biennale “La dittatura dello spettatore”, anticipando il riassestamento del paradigma operatore-fruitore, ci troviamo ora di fronte al “timore nei confronti dello spettatore (perché stupido)”. Una decisione presa in nome del rispetto della sensibilità di certi spettatori e il timore di proteste e scandali. Le sempre più pressanti richieste ai musei di agire in modo responsabile, porsi e porre domande su questioni di riconoscimento di diritti personali, giustizia razziale e di genere, naufragano per mancanza di fiducia verso il pubblico, lo stesso pubblico che si dice di proteggere. L’autocensura è la forma più pericolosa di censura, perché si fonda preventivamente su assunti, proiezioni e timori di comportamenti della “massa”, prima che questi possano avere luogo. La richiesta o imposizione di censura invece pone di fronte all’urgenza di una reazione, un dibattito che qui non si vuole neanche considerare. L’abbiamo già visto nella Germania nazista, nella Russia stalinista e in molti altri luoghi in cui chi detiene il potere, o chi lo teme, pensava di poter piegare la società limitando ciò che vediamo e come dovremmo esprimerci. Qui la questione è ancora più tragica perché subdola. Nel momento in cui si accetta il principio di cancellare una mostra per paura che possa fare discutere, si apre nelle società liberali la questione del dibattito culturale, ma questo regime dittatoriale del pol. corr. si presta ai sostenitori delle democrazie non liberali, che in nome di altri princìpi negano l’esposizione di tale o tale opera.

Ma chi è stato Philip Guston? Bianco era bianco, forse le condotte nella sua vita hanno potuto dar luogo a letture ambigue e devianti dei suoi dipinti? Nato Philip Goldstein (1913-1980), figlio di emigrati ucraini fuggiti dall’antisemitismo, è stato un pittore e incisore della “Scuola di New York”, gruppo che includeva molti degli espressionisti astratti, come Pollock e De Kooning. Se la quasi totalità dei pittori astratti è partita dalla figurazione, gradualmente scomponendola, sublimandola per esprimere attraverso gesti, colori e strutture spaziali i sentimenti fondamentali dell’essere umano, pochissimi artisti sono tornati alla figurazione dopo averla scomposta e di fatto resa, per un momento, obsoleta. L’astrattismo è una via a senso unico, ma non per tutti. Philip Guston è tra questi e verso la fine degli anni 60 contribuisce a guidare una transizione dall’espressionismo astratto al neoespressionismo, abbandonando la cosiddetta “pura astrazione” a favore di rappresentazioni fumettistiche di vari simboli e oggetti personali. “Cercavo qualcosa di più specifico” disse, erano gli anni delle proteste politico-sociali-razziali che infiammeranno gli Stati Uniti. Guston inizia a mettere in discussione il valore dell’arte astratta: “Che tipo di uomo sono”, seduto a casa, leggendo riviste, navigando attraverso una rabbia mista a frustrazione per tutto ciò che accade – e poi entro nel mio studio per aggiustare una tonalità di rosso con il blu?”. 
Ispirati sia dall’immediatezza dei fumetti underground che dalle forme audaci dell’arte rinascimentale italiana, questi dipinti esprimono la paura, la brutalità e la banalità del male. Figure goffe con il cappuccio bianco che hanno un’aria minacciosa ma sembrano anche stupidi e irrimediabilmente patetici. “Il male è diffuso tra di noi. Forse sono anch’io sotto questo cappuccio?”, si chiedeva Guston in quanto uomo bianco statunitense. La distinzione tra il non essere razzista e l’essere antirazzista, così urgente oggi, fu affrontata da Guston 50 anni fa. Presentare oggi una mostra, intitolata appunto “Now” non avrebbe fatto altro che dare occasione di approfondimento, confronto, sviluppo della discussione. Nel 1971 Guston ritrasse il viso di Richard Nixon come uno scroto peloso e un fallo. Come rappresenterebbe oggi il presidente Trump? Una curiosità che rimarrà per sempre non soddisfatta. Musa Mayer, la figlia dell’artista, ha dichiarato: “Questi dipinti incontrano il momento in cui ci troviamo oggi. Il pericolo non è guardare il lavoro di Philip Guston, ma distogliere lo sguardo”. Così facendo la guerra culturale si intensifica, radicalizza e diffonde sempre più rapidamente.

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