Mito4. Le differenze di genere: quattro miti da sfatare (4 di quattro fine)

Non c’è alcun dubbio che le persone (così come le società) possano formarsi idee troppo rigide e schematiche sulle differenze tra maschi e femmine,

26 Marzo 2023 - di Marco Del Giudice fondazionehume.it lett5’

Mito #4: Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Come ho cercato di mettere in risalto fin qui, le differenze psicologiche tra maschi e femmine sono tutt’altro che minime, e sono profondamente radicate nella nostra biologia piuttosto che un prodotto esclusivo dell’apprendimento e dei condizionamenti sociali. Oltre a dare per scontata l’idea (non più sostenibile) che le “vere” differenze di genere siano trascurabili, il discorso mainstream sugli stereotipi di genere confonde tra loro tre questioni distinte che dovrebbero essere affrontate separatamente: quella della rigidità delle aspettative e opinioni comuni, quella della loro accuratezza, e quella dei loro effetti.

Non c’è alcun dubbio che le persone (così come le società) possano formarsi idee troppo rigide e schematiche sulle differenze tra maschi e femmine, senza tenere in dovuta considerazione la variabilità individuale e la flessibilità del comportamento umano. Ma anche nei casi in cui gli stereotipi sono eccessivamente rigidi, possono essere basati sull’osservazione di fenomeni reali e quindi essere almeno in parte veritieri. La tendenza più discutibile in questo campo è quella di giudicare qualsiasi affermazione sulle differenze di genere—per quanto realistica e sfumata—come uno “stereotipo” da smontare, frutto di ignoranza e pregiudizi. In realtà, la ricerca sugli stereotipi di genere ha mostrato molto chiaramente che, in media, le aspettative delle persone tendono ad essere sorprendentemente accurate e aderenti alla realtà; quando si osservano deviazioni dai dati empirici, gli errori vanno più spesso nella direzione di sottovalutare le differenze piuttosto che di esagerarle. (In più, contrariamente a quanto spesso si crede, la maggior parte delle persone è piuttosto brava a rivedere o mettere da parte le sue aspettative quando riceve informazioni sulle caratteristiche di una specifica persona).

Nel campo della personalità, i tratti in cui si trovano le maggiori differenze di genere comprendono stabilità emotiva, ansia, amichevolezza, calore interpersonale, dominanza/assertività e sensibilità (sia in senso empatico che in senso artistico/estetico). Il fatto che queste differenze corrispondano a degli stereotipi comuni non le rende meno reali; e soprattutto non dimostra in alcun modo che siano gli stereotipi a causare le differenze, piuttosto che il contrario. Per fare un esempio banale, sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe assurdo argomentare che questo stereotipo sia la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi quando arrivano alla pubertà. Vista da vicino, l’idea che la scienza abbia “sfatato gli stereotipi di genere” si rivela essa stessa un mito da sfatare.

L’aspetto più complesso e delicato da affrontare riguarda gli effetti degli stereotipi. Con poche eccezioni, la ricerca psicologica e sociologica su questo tema si basa sull’assunto che gli stereotipi siano a priori infondati e dannosi. Sicuramente, gli stereotipi di genere—soprattutto se esagerati o troppo rigidi—possano creare ingiustizie e disagi, soprattutto nelle persone con personalità o interessi “atipici” rispetto agli altri membri del proprio sesso. Il problema è che l’attenzione a senso unico verso gli effetti potenzialmente negativi degli stereotipi finisce per oscurare i loro aspetti positivi. Negare o minimizzare quelle che sono differenze reali tra i sessi può avere conseguenze altrettanto deleterie, sia a livello sociale (per esempio con l’adozione di politiche fallimentari o controproducenti) che a livello personale (per esempio rendendo più difficile la comunicazione tra uomini e donne; incoraggiando la lettura distorta di differenze negli interessi e nelle abilità come “discriminazioni”; o privando gli psicologi di strumenti utili per la comprensione e il trattamento della sofferenza mentale). Un approccio bilanciato a questo tema dovrebbe riconoscere entrambi i lati della medaglia, ed essere aperto all’eventualità che avere degli “stereotipi” flessibili ma allo stesso tempo realistici possa aiutare a vivere il rapporto con il maschile e il femminile in modo più sereno e consapevole.

Questa non è solo una speculazione: diversi studi hanno rilevato che le persone con una visione stereotipata ma generalmente positiva delle differenze tra maschi e femmine (soprattutto in modi che enfatizzano la complementarietà tra i sessi) tendono anche ad avere maggiori livelli di benessere, maggiore autostima, e relazioni di coppia più soddisfacenti. Anche se non dimostrano una relazione causale, questi dati sono in linea con l’idea che una “modica quantità” di stereotipi di genere possa contribuire al benessere psicologico e relazionale, sia negli uomini che nelle donne. Purtroppo, l’approccio ideologico che domina quest’ambito di ricerca fa sì che i risultati vengano riletti in chiave sempre negativa: così, gli stereotipi positivi (indipendentemente dalla loro fondatezza) vengono etichettati come “sessismo benevolo”, e le associazioni con benessere e autostima vengono spiegate come “effetti palliativi” o forme rassicuranti ma subdole di “negazione della discriminazione”. L’ipotesi che alcuni stereotipi possano essere un segno di realismo e maturità non viene nemmeno presa in considerazione.

Tra i vari modi in cui la psicologia tende a enfatizzare gli aspetti deleteri degli stereotipi, l’esempio più eclatante è sicuramente la teoria della “minaccia dello stereotipo” (stereotype threat). L’idea di base è che “attivare” la rappresentazione di uno stereotipo di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) sia sufficiente per suscitare ansia e tensione nei membri del gruppo sfavorito (in questo caso le femmine), e quindi interferire con la loro prestazione cognitiva. Secondo questa teoria, alcune disparità persistenti tra maschi e femmine (in particolare nelle abilità matematiche) non sono che il frutto di una profezia che si auto-avvera, per cui l’esistenza di uno stereotipo negativo produce effetti che finiscono per confermare lo stereotipo. Questo filone di ricerca è nato negli anni ‘90 e ha ricevuto un’enorme pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che ancora pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi (publication bias), l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare. Anche se in futuro la ricerca dimostrasse in modo indiscutibile che la “minaccia dello stereotipo” può ridurre lievemente le prestazioni cognitive, un effetto di quella dimensione non sarebbe lontanamente sufficiente per spiegare le differenze che si osservano nel mondo reale. Ma la teoria (ormai quasi del tutto falsificata) ha già influenzato pesantemente la conversazione pubblica, ed è stata usata per giustificare interventi anche piuttosto invasivi nel campo dell’educazione, della selezione del personale, e così via.

Per concludere, voglio sottolineare ancora una volta che l’antidoto ad una visione manichea e dogmatica delle differenze di genere non deve tradursi in una semplificazione di segno opposto, per cui tutti gli stereotipi sono sacrosanti e i due sessi diventano categorie monolitiche, composte da individui tutti uguali che devono imparare a “stare al loro posto”. Sfatare i miti che oscurano la visuale è un passo necessario, ma rimane solo il primo passo. Come sempre, la vera soluzione passa per uno sforzo di riflessione e di sintesi; una sintesi capace di integrare anche i limiti e gli aspetti meno gratificanti della nostra natura, riconoscere che i fenomeni psicologici hanno quasi sempre sia costi che benefici, e resistere alla tentazione di voler giudicare e cambiare la realtà prima di averla compresa.

Marco Del Giudice è professore associato di psicologia all’University of New Mexico (USA). Ha pubblicato oltre 100 articoli, capitoli e monografie su temi di ricerca che spaziano dalla neurofisiologia dello stress alla plasticità nello sviluppo, fino all’evoluzione della personalità e alle basi biologiche dei disturbi mentali. È riconosciuto a livello internazionale per i suoi contributi teorici e metodologici allo studio delle differenze di genere. Il suo sito web è marcodg.net.

Bibliografia

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