Donne e Charlie. Togliere il velo sulle violenze compiute in nome dell’islam. Se non ora quando?

Esiste un collegamento tra chi si copre gli occhi di fronte alle pratiche omicide portate avanti in nome dell’islam e chi si copre gli occhi di fronte a violenze sulle donne che trovano una loro giustificazione in una precisa interpretazione dell’islam?

Due donne indossano il niqab a Barcellona, in una foto d'archivio (LaPresse)

di Claudio Cerasa | 10 Gennaio 2016 ore 10:30 Foglio

Se non ora, quando? Le reazioni timide e imbarazzate allo stupro di massa di Colonia e i commenti sottovoce offerti dall’internazionale del femminismo di fronte alla notizia delle violenze praticate sul corpo di un centinaio di donne da un gruppo di uomini di aspetto “arabo e nordafricano” ci portano a ragionare su un tema culturalmente cruciale che lega i fatti di Colonia all’anniversario di Charlie Hebdo. Il problema è il seguente: esiste una forma di collegamento possibile tra chi si copre scandalosamente gli occhi di fronte alle pratiche omicide portate avanti in nome dell’islam e chi si copre gli occhi altrettanto scandalosamente di fronte a violenze sulle donne che trovano una loro giustificazione in una precisa interpretazione dell’islam? Il collegamento c’è, purtroppo, ed è evidente. Si tratta di una forma di castrazione che si è voluta imporre l’occidente politicamente corretto per non andare alla radice del problema e per non ammettere che il modo migliore per portare avanti una rivoluzione culturale, nell’islam, è uno e soltanto uno: togliere il velo all’islamicamente corretto che si preoccupa più di chi critica l’islam che di chi compie orrori in nome di una religione.

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Il primo febbraio, come sappiamo, verrà celebrato ancora una volta il World Hijab Day, la Giornata mondiale del velo islamico, per “testimoniare solidarietà con chi lo indossa tutti i giorni”, “sconfiggere gli stereotipi” e “combattere l’islamofobia”, e ancora una volta, il primo febbraio come tutti gli altri giorni dell’anno, si perderà un’occasione importante per capire che l’unica solidarietà non pelosa che si può offrire alle donne musulmane non è infilare retorica nella pancia gonfia della political correctness, ma è impegnarsi tutti insieme per denunciare le vergogne che vengono portate avanti, soprattutto sul corpo delle donne, in nome dell’islam. Lucia Annunziata, direttore dell’Huffington Post, giovedì scorso ha ammesso con buona dose di coraggio che “il rapporto dell’islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell’Isis o del terrorismo”. Ma non c’è nulla da fare: possono scorrere sui video tutte le immagini possibili di poligamie forzate, spose bambine, stupri seriali, infibulazioni, cristiane yazide ridotte in schiavitù, ma la paura di criticare l’islam è forte, il terrore di una reazione è enorme, l’idea di non dover “provocare”, come insegna il sindaco di Colonia, è troppo grande, e si capisce dunque che il popolo del Se Non Ora Quando (ultimo post presente sul sito è datato febbraio 2014, tema: l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali) preferisca nascondere i volti piuttosto che mostrare gli orrori.

In un magnifico libro di cui abbiamo parlato a lungo su questo giornale, “Islam e Violenza”, il poeta siriano Adonis offre alcuni spunti utili per ragionare sul tema. Adonis, partendo dal flop delle primavere arabe, ricorda che nemmeno in quel periodo in cui l’islam si sarebbe dovuto autorigenerare (come no) c’è stata alcuna presa di posizione, nemmeno una parola, sulla libertà della donna… “E come si può parlare di una rivoluzione araba se la donna è ancora prigioniera della sharıa?”. Il poeta siriano, continuando il suo ragionamento, ricorda che la sottomissione della donna è uno dei precetti del Corano – “il maschile diventa il simbolo di Dio e la donna è una sua proprietà” – e ricorda un passaggio cruciale del testo sacro: “Le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere (Corano 2:223)”. Il punto è tutto qui, dice Adonis: essendo un campo da coltivare, “la donna esiste soltanto per generare, e tutta la sua femminilità, tutta la sua dimensione rivoluzionaria, tutta la sua bellezza come elemento essenziale dell’esistenza, ovvero del cosmo, sono invitate a eclissarsi o a scomparire”. Basta? Non basta, purtroppo. Adonis ricorda anche che oggi l’Isis, in Iraq e in Siria, organizza concorsi per selezionare il miglior lettore del Corano e al vincitore assegna una schiava. Che in arabo non esiste ancora un termine giuridico per designare lo stupro coniugale (“Significa che per denunciare lo stupro coniugale, il sessismo, il maschilismo... bisogna usare una lingua occidentale”). Che la donna, a voler essere rigorosi con il testo sacro, non è un essere umano, “è considerata un oggetto che si può vendere e comprare”, e per questo “mettere le donne in gabbia, venderle, fissare un prezzo in funzione dell’età o della bellezza sono cose che fanno parte della storia della donna araba”. Basta? Non basta, purtroppo.

L’internazionale silente del femminismo farebbe bene ad appuntarsi un passaggio ricordato ancora da Adonis. Anni fa il poeta siriano dirigeva una rivista che si chiamava “Mawaqif”. Il comitato di redazione un giorno decise di dedicare un numero della rivista alla condizione della donna nel mondo arabo e nel testo coranico. Adonis ricorda che in quell’occasione chiesero a uno specialista di diritto musulmano di scrivere un articolo sulla situazione della donna musulmana alla luce dei testi della legge e della giurisprudenza. Lo specialista ascoltò e si rifiutò. Furono convocati diversi giuristi e anche loro stessa storia: ascoltarono e si rifiutarono. “A quel punto ho deciso di chiudere la rivista. Nessuno voleva parlare di donne e islam perché dire la verità significa esporsi alle minacce, alle critiche e ai processi. Non potevo continuare a sostenere la menzogna di una rivolta che non osa affrontare i problemi essenziali della nostra vita quotidiana”. Lo stesso problema lo si osserva e lo si riscontra oggi. Meglio non parlare. Meglio far finta di niente. Meglio un velo. Senza capire che forse il primo febbraio le donne, per aiutare le donne musulmane, più che coprire dovrebbero mostrare – mostrare gli orrori. Il caso Colonia è solo l’ultimo di una serie. Il problema non è l’islam, è la sua interpretazione radicale. Ma non mostrare l’orrore, e nasconderlo, significa essere complici di un delitto. Significa prepararci ad accogliere il prossimo crimine senza essere in grado di rispondere. E se non si risponde ora, quando lo si fa? E ora via, tutti di nuovo a postare commenti indignati sull’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali.

Categoria Estero

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